martedì 28 luglio 2009

capitolo X

“Dissi a mia madre che avevo un mal di testa terribile, e andai a letto.
Un’ora dopo, la porta si aprì adagio e mia madre entrò in punta di piedi. Sentii il fruscio degli indumenti mentre si svestiva. Si infilò nel letto. Poi il suo respiro si fece sempre più lento e regolare.
Alla luce fioca del lampione che filtrava dalla tapparella, vedevo i becchi d’oca della messa in piega scintillare come una fila di minuscole baionette.
Decisi che il romanzo lo avrei rimandato a dopo che fossi andata in Europa e avessi avuto un amante, e che non avrei imparato neanche una virgola di stenografia, così non sarei stata costretta a usarla.
L’estate l’avrei impiegata per leggere Finnegans Wake e per scrivere la tesi. […]
Poi pensai che, anzi, avrei potuto interrompere per un anno il college e andare a fare l’apprendista in un laboratorio di ceramica.
Oppure andare in Germania pagandomi il viaggio con lavoretti vari, e là fare la cameriera finché non diventavo bilingue.
Poi i progetti cominciarono a saltellarmi per la testa come una famiglia di conigli impazziti.
Vidi gli anni della mia vita in fila uno dietro l’altro come pali del telefono lungo una strada, collegati insieme dai cavi. Contai uno, due, tre…diciannove pali, ma dopo il diciannovesimo i cavi spenzolavano nel vuoto, e per quanto mi sforzassi, non riuscivo a scorgere nessun altro palo.
La stanza riapparve nella luce azzurrina, e io mi chiesi dove fosse finita la notte. […]
Mi infilai tra il materasso e la lettiera imbottita, lasciandomi ricadere addosso il materasso come una pietra tombale. Là sotto era buio e protetto, ma il materasso non era abbastanza pesante.
Avrebbe dovuto pesare a dir poco una tonnellata in più, per farmi dormire.

riverrun, past Eve and Adam’s, from serve of shore to bend of bay, brings us by a comodius vicus of recirculation back to Howth Castle and Environs…

Lo spesso volume mi pungeva la pancia.

riverrun, past Eve and Adam’s…

Forse la lettera minuscola all’inizio del libro significava che in realtà niente ha mai veramente inizio, con la maiuscola, ma fluisce da ciò che viene prima. Eve and Adam’s erano Adamo ed Eva, ovviamente, ma probabilmente c’era anche qualche altro significato.
Magari si trattava di un pub di Dublino.
I miei occhi affondarono in un guazzabuglio di lettere dell’alfabeto fino alla parola lunghissima a metà pagina.

Bababadalgharaghtakamminarronnkonnbronntonnerronntuonnthunntrovarrhounawnskawntoohoohoordenenthurnuk!

Contai le lettere. Cento esatte. Doveva essere importante.
Perché proprio cento?
Provai a pronunciare la parola ad alta voce incespicando.
Sembrava di sentire un pesante oggetto di legno rimbalzare giù dalle scale, bump bump bump, un gradino dopo l’altro. Avvicinai il libro agli occhi e lasciai che le pagine si aprissero lentamente a ventaglio. Parole vagamente familiari ma tutte contorte, come facce nello specchio deformante al lunapark, mi sfilarono davanti senza lasciare alcuna impressione sulla superficie vitrea del mio cervello.
Strizzai gli occhi per metterle a fuoco meglio.
Le lettere misero fuori spine e doppi uncini.
Le osservai separarsi e ballonzolare su e giù. Poi ricongiungersi in forme fantastiche, intraducibili, come caratteri arabi o cinesi.
Decisi di lasciar perdere tutto quanto.
Decisi di lasciar perdere la tesi e di prendere un semplice diploma triennale. Andai a controllare i corsi richiesti nel mio college.
Erano un sacco, e io non ne avevo seguiti nemmeno la metà. Per esempio, era obbligatorio un corso sul Settecento. Io detestavo il solo pensiero del Settecento, con quei parrucconi che scrivevano tutti quei distici a rima baciata e avevano la fissa della Ragione. Per questo lo avevo saltato. Nel mio piano di studi si potevano saltare gli esami che non piacevano, si era molto più liberi. Talmente liberi che io, per esempio, avevo dedicato quasi tutto il mio tempo a Dylan Thomas.”

Sylvia Plath, da La campana di vetro, traduzione di Adriana Bottini.

giovedì 16 luglio 2009

Sorry we are closed

Ho dato un'occhiata fuori dalla finestra e tutto quello che ho visto non mi è piaciuto. Preferisco ritornare nel mio mondo per un (bel) po'. Torno a occuparmi dell'intrigante rapporto tra Stephen e Cora (proprio vero che in un romanzo, come in un buffet, ognuno si avventa su ciò che l'ingolosisce di più) e cercherò di dedicarmi seriamente al corredino della creatura in vista della vacanzina al mare.
Questo significa che non ne posso più di tante cose inutili che sento dire e vedo fare e mi asterrò dal produrre altre parole inutili. Basta commenti, discussioni e ghirigori egocentrici. Bisognerebbe parlare del fatto che il prezzo di un litro di latte fresco nel giro di 8 anni è aumentato del 50% o del fatto che, se sarò fortunata, sarò in cassa integrazione fino a dicembre. Ma mi rendo conto che questi argomenti non interessano a nessuno, perciò tante care cose a tutti. Io abbasso la serranda.

martedì 14 luglio 2009

Oggi sciopero


Adesione all'appello di Diritto alla Rete contro il DDl alfano che imbavaglia la Internet italiana

lunedì 13 luglio 2009

Vale e gli altri

Sotto la visiera del berretto rosso, Vale nasconde un broncio da bambino e le guance acneiche di un adolescente; è uno sguardo corrucciato, quello che filtra da sotto la visiera, uno sguardo che ci esamina dall’alto in basso. Poi improvvisamente Vale raccoglie da sotto la panchina una minuscola foglia secca e me la porge. Cavallerescamente, il bluesman accoglie il dono al posto mio e ringrazia. Ma Vale con destrezza reperisce e deposita nella mia mano una cartina di caramella accuratamente ripiegata. Non so esattamente se si tratti di un gesto amichevole, visto l’ostinato cipiglio dell’offerente; ma è difficile pensare a un gesto di disprezzo, anche quando Vale, dopo aver rassettato il suolo con le dita, raccoglie e porge solo un minuscolo, insignificante granello di terra.

Ci troviamo a Lugano, nel cuore di un incantevole parco che lambisce il lago. Ovunque è un tripudio di fiori, vialetti lindi e panchine impeccabili affondate in aiuole sgargianti: ogni particolare è studiato per non infrangere le esili coordinate della bellezza. Tutti i cani sono al guinzaglio ed è un placido, democratico andirivieni di individui i più diversi fra loro per origine, lingua, religione, ceto sociale. Giovani musulmane nascoste sotto lunghi soprabiti chiari, gruppetti di gay azzimati del tipo D&G, pensionati tedeschi, donne sole ed eleganti, coppiette francesi, bimbette in sari luccicanti, tutti hanno diritto alla loro parte di bellezza, alla gita in battello, al gelato, alla foto di rito, purchè ogni cosa si svolga con misura, senza eccessi, nel rispetto delle regole di una pacifica convivenza.

Vale parla, anche. Le uniche due parole che ci rivolge sono tentati riferimenti all’auto che l’ha portato lì e al modellino di trattore con cui giocherella. Vale pensa, indubbiamente. Pensa con lentezza, ma di sicuro pensa. Forse semplicemente non ritiene necessario comunicare quello che ha nella testa, forse non è certo di poter essere ben compreso.
Probabilmente Vale non realizza che attorno a lui in questo momento stanno strepitando decine di bambini. I bimbi si divertono tutti nello stesso modo, ridono tutti nello stesso modo; disubbidiscono, frignano, si ostinano a bere l’acqua della fontana: quale che sia il colore della loro pelle – e si va dal bianco latte al nero più nero attraverso ogni possibile gradazione e combinazione – ambiscono tutti agli stessi giochi, comunicano con immediatezza, non hanno bisogno di parole. Sono i genitori a richiamarli in lingue differenti.
Vale e gli altri – perchè Vale non è solo – probabilmente non si accorgono di questo brulicare di altalene e rimproveri e sbrodolamenti attorno alla fontana. Due mondi che si intersecano senza entrare in contatto. La contrapposizione è netta: un mondo spensierato, fatto di gridolini e abitini colorati, e un mondo di bisogni semplici, fatto di corpi imbragati, tutori ortopedici, sedie a rotelle.
Per Vale e gli altri la nostalgia è un lusso. Non possono rimpiangere o desiderare ciò che non hanno mai conosciuto. Vale è il solo, nel gruppo, a muoversi autonomamente: dopo aver osservato i suoi compagni, non mi sfugge la naturalezza con cui ripiega le gambe sulla panchina. Una naturalezza del tutto sconosciuta agli altri ragazzini, nessuno dei quali potrebbe sognarsi di salire sul cavallo a dondolo con le proprie forze. Ben avrà dodici anni, suppongo; indossa pantaloni mimetici e una maglia verde militare, ha i capelli e i lineamenti delicati di un bimbo dell’Est e si produce in un sorriso che allarga il cuore quando riesce a orientare il getto di una fontanella in maniera tale da spruzzare il suo accompagnatore. Quanto all’altro suo compagno, la cui sedia a rotelle è stata avvicinata il più possibile alla fontana, è un successo il solo fatto di raggiungere l’acqua, sentirne la carezza o la violenza del getto. Una felicità così intensa per così poco, verrebbe da dire. Quanto sarà lunga la giornata di un ragazzino come Vale, come Ben o come il “piccolo”, il più colpito della compagnia, quello che da dietro le spesse lenti sembra lanciare occhiate adulte di impazienza?
Penso che questi ragazzi non conoscano la noia. Sono troppo occupati a conquistare anche la gratificazione più elementare per prendere in considerazione la monotonia. Non sono interessati al confronto. Il loro è un orizzonte necessariamente limitato: la malattia, un capriccio della biologia, ha disegnato per loro dei confini forse insuperabili. E all’improvviso mi sembra che la vita – il senso della vita - sia solo una questione di orizzonti, di quali e quanti orizzonti ci sappiamo creare, di quanto in là riusciamo a spingere il nostro sguardo. La vita di questi ragazzi, capisco all’improvviso, non è più monotona di quella di un pensionato che, pur non avendo problemi di salute, si autolimita al proprio giardino o al solito percorso di pettegolezzi paesani. E rivedo, parallelamente, gruppetti di adolescenti, coetanei di questi ragazzi, avvezzi a consumare la noia e i soldi dei genitori arroccati sugli sgabelli di un qualche bar, fra sms e chiacchiere vuote e abiti e capigliature, praticamente indistinguibili gli uni dagli altri. Perché mai dovrei giudicare priva di scopo la vita di una creatura che gode della più piccola conquista, che fa tesoro di un granello di polvere, mentre la gran parte delle persone sane, normali e produttive disprezza coscientemente tempo, salute, forza, bellezza, in una parola, la vita?

Vale condensa per noi il suo pensiero in una contrazione della parola trattore e, nel farlo, lascia planare qualche goccia di saliva sul mio piede, sul mio sandalo sportivo, sulle mie belle unghie laccate prugna.
“Eh, quante storie…che sarà mai: è vomito, no?” aveva risolto pratica l’infermiera napoletana quella notte che avevo allagato lo spazio tra il mio letto e quello di un’altra ricoverata. Che sarà mai, penso, per qualche goccia di saliva. Perché mi ricordo di quando non riuscivo a muovere lo sguardo senza essere sopraffatta dalla nausea, perché mi ricordo di che incubo fossi per il personale paramedico, per le mie compagne di stanza. Perché me lo ricordo bene come dovevo dipendere dagli altri anche per le necessità più elementari. E penso che come Vale e i suoi compagni certo si nasce, ma lo si può anche diventare: in seguito a una malattia, un incidente, un insondabile capriccio del destino.
Lo sai, vorrei dire al “piccolo” se solo potesse capirmi – ma chi può dire se davvero non sia in grado di capirmi? - c’è stata una settimana della mia vita in cui anch’io dovevo essere trasportata in sedia a rotelle. So cosa significa dipendere interamente dagli altri, piccolo. Non so dire come tu ti senta esattamente, ma almeno posso provare a immaginarlo, posso accorciare la distanza che apparentemente e per puro caso ci sta separando.

Più tardi il bluesman ed io andiamo a cercarci un posticino all’ombra dove consumare il nostro semplice pranzo al sacco. Lungo il percorso incrociamo una bimba incantevole, impegnata a spingere il proprio passeggino sotto gli occhi amorevoli dei genitori. Ha i capelli biondissimi, gli occhi azzurri, un profilo impeccabile, un abitino grazioso e scarpine dorate. Un contrasto abbagliante, da spezzare il cuore. Cerco di proiettare il futuro di questa bimba perfetta e, chissà perché, vedo una ragazzina scontrosa, una donna insoddisfatta e autolesionista. Poi penso a Vale, al “piccolo”, alle loro necessità immediate, alla loro notte, a una qualche microscopica, preziosissima conquista che raggiungeranno domani e, se non domani, probabilmente il giorno successivo, o il giorno dopo ancora. Per una creatura che prova felicità al semplice contatto con l’acqua, penso, forse la vita è una miniera di scoperte ed emozioni meravigliose.


venerdì 10 luglio 2009

Please don't take a picture it's been a bad day (R.E.M.)

"Suffering does make us more sensitive until it crushes us completely"

(Edmund White "The beautiful room is empty")

martedì 7 luglio 2009

Della vergogna

Anche se qualcuno mi dice che non dovrei, io non riesco a non deprimermi leggendo queste notizie.

Della volgarità

Considerato che, al momento, la creatura ha raccolto solo consensi, ora mi aspetto, com’è naturale, anche le critiche, nessuna delle quali però potrà ferirmi come questa gentile frase, pronunciata da una persona dotata di discreta cultura e normale intelligenza: “Lo sai, devo dire che il tuo libro non è per niente volgare”.
Ecco, complimenti del genere preferisco non riceverli proprio.
Che un capo di governo si intrattenga con prostitute e giovani(ssime) donne più o meno vestite, tutte grottescamente ammaestrate a lodare e servire il papipadrone, è un fatto pacificamente acquisito, del tutto conforme al comune senso del pudore. Mentre la scoperta di un intenso, vicendevole legame affettivo da parte di due uomini evoca automaticamente qualcosa di sordido, al punto che ci si stupisce se la trattazione dell’argomento risulta priva di volgarità.
Non mi viene neanche da dire “ce n’è di strada da fare” perché in questo momento farei volentieri un'unica strada: quella verso un paese più civile

lunedì 6 luglio 2009

Addio Lugano bella: appunti su Estivaljazz 2009

Chiusi i battenti dell’ultima edizione di Estivaljazz è piuttosto difficile stabilire cosa abbia lasciato dietro di sé la manifestazione di quest’anno: i detriti abbandonati sul campo di Piazza della Riforma dagli ultimi festaioli tiratardi immagino siano stati spazzati con la consueta efficienza svizzera già pochi minuti dopo la fine dell’ultimo concerto. Ammesso che ci fossero molti detriti da spazzare. Perché sabato sera non si è visto l’assembramento brulicante di sempre, niente mondanità, niente mise stravaganti. Sobrietà? A me è sembrato disinteresse.
Diciamo che la formula recente (quella che ha relegato il jazz al ruolo di specchietto per allodole) comincia ad essere stantia. Forse la musica etnica, considerata chissà perché un facile e ballabile surrogato del jazz, giudicata chissà perché più fruibile da un non meglio precisato “pubblico giovane” ha esaurito le sue teoriche potenzialità. E i presunti concertoni delle star di un passato mitico (Wakeman, Anderson, Hackett e via dicendo) spesso lasciano dietro di sé solo una scia di patetico rimpianto per ciò che non è più.

All'ormai leggendaria direzione artistica della rassegna formulo una richiesta chiara e semplice: we want jazz!

Strizzare l’occhio alle soluzioni più facili e commerciali per soddisfare gli sponsor non paga più. Il senso di disorientamento del pubblico è chiaramente percepibile, la mancanza di stimoli da parte della direzione artistica pure: la sensazione generale, quest’anno, è stata quella di una manifestazione concepita e fruita per inerzia. L’unica soluzione a mio avviso è riqualificare la rassegna, restituirle l’antica, prestigiosa identità di festival jazz.

domenica 5 luglio 2009

Genesis

Un unico effetto durevole è stato prodotto dal concerto luganese di Steve Hackett: il bluesman è stato colto dall'urgenza di sfoderare tutti i suoi illustri vinili dei Genesis, in parte per dimostrarmi che li conosce tutti a memoria (può bastare, ci credo, ci credo...), in parte per illustrarmi la superiorità delle versioni originali rispetto a quelle ascoltate ieri sera (che il batterista cantante non fosse Phil Collins e tantomeno Peter Gabriel l'avevo capito pure io...). Morale: da 24 ore sul piatto girano i Genesis a ciclo continuo. Vabbè, tutto sommato poteva andarmi peggio.

giovedì 2 luglio 2009

In convalescenza

Jack il Pigrone

C’era una volta un ragazzo di nome Jack che viveva con sua madre vicino a un pascolo. Erano molto poveri e la vecchia madre si guadagnava da vivere filando, mentre Jack era così pigro che non faceva altro che crogiolarsi al sole nella bella stagione e starsene seduto in un angolo del focolare se era inverno. Perciò lo chiamavano Jack il Pigrone. La madre non riusciva a fargli fare niente e alla fine, un certo lunedì, gli disse che se non si metteva a lavorare per il suo boccone di pane l’avrebbe cacciato di casa e si sarebbe dovuto arrangiare da solo.
Jack allora si diede una mossa, l’indomani andò a prestare servizio da un contadino del vicinato per un penny; ma mentre tornava a casa, essendo la prima volta che aveva del denaro, perse la moneta nel superare un ruscello.
“Stupidotto, - disse la madre – avresti dovuto metterla in tasca”.
“La prossima volta farò così” rispose Jack.
Bene, l’indomani Jack uscì di nuovo e prestò servizio presso un vaccaio che gli diede una brocca di latte come ricompensa per la giornata. Jack la prese e la pose nella grossa tasca della sua giacca, ma già prima che fosse giunto a casa si era tutto rovesciato.
“Santo cielo! – disse la vecchia – avresti dovuto portarlo sopra la testa”.
“La prossima volta farò così” disse Jack.
Così l’indomani Jack lavorò di nuovo presso un contadino, che concordò di remunerarlo con un formaggio molle. La sera Jack prese il formaggio e se lo mise in testa per portarlo a casa. Quando arrivò a casa il formaggio si era tutto rovinato: in parte si era perduto e in parte gli si era impastato nei capelli.
“Stupidone, - disse sua madre – avresti dovuto tenerlo tra le mani con grande cura”.
“La prossima volta farò così” rispose Jack.
Ora, l’indomani Jack il Pigrone uscì di nuovo e andò a giornata da un fornaio che per tutto il suo lavoro non gli diede altro che un grosso gatto. Jack prese il gatto e cercò di tenerlo tra le mani con grande cura, ma ben presto il micio lo graffiò tanto che Jack fu costretto a lasciarlo andare.
Quando arrivò a casa la madre gli disse: “Sciocco che sei, avresti dovuto legarlo a una cordicella e tirartelo dietro”.
“La prossima volta farò così” disse Jack.
Così il giorno dopo Jack andò a giornata da un macellaio, che lo ricompensò con un bel regalo, una spalla di montone.
Jack prese il montone, lo legò a una cordicella e lo trascinò a terra dietro a sé, così che quando giunse a casa la carne era da buttare via. Quella volta la madre si spazientì proprio perché l’indomani era domenica e lei per il pranzo doveva accontentarsi di un piatto di cavoli.
“Che testa di legno! – disse al figlio. – Avresti dovuto mettertela su una spalla”.
“La prossima volta farò così” rispose Jack.
Beh, il lunedì Jack il Pigrone andò di nuovo a giornata e si sistemò presso un allevatore, che lo ricompensò con un asino.
Ora, per quanto Jack fosse forte, fece fatica a issarsi l’asino sulle spalle, ma alla fine ci riuscì e incominciò a camminare lentamente verso casa con il suo trofeo. Ora, per caso nel corso del cammino passò accanto a una casa dove vivevano un uomo ricco e la sua unica figlia, una bellissima ragazza, sordomuta. Non aveva mai riso in vita sua e i dottori dicevano che non avrebbe mai parlato finché qualcuno non l’avesse fatta ridere. Così il padre aveva annunciato che chiunque l’avesse fatta ridere avrebbe ottenuto la sua mano. Ora, per caso questa signorina guardò fuori dalla finestra mentre passava Jack con l’asino in spalla, e la povera bestia con le gambe all’aria scalciava e ragliava a più non posso. Beh, lo spettacolo era così comico che lei fu presa da un grande attacco di risate e immediatamente riacquistò la parola e l’udito. Il padre era arcicontento e mantenne la promessa dandola in sposa a Jack il Pigrone, che diventò così un ricco gentiluomo. Andarono ad abitare in una grande casa e la madre di Jack visse con loro tutta contenta fino alla morte.

(Da “Fiabe tradizionali inglesi” narrate da Flora Annie Steel, illustrate da Arthur Rackham, tradotte da Carla Muschio, Edizioni Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, 2006)