giovedì 27 agosto 2009

Riassumendo

Concluso l'esame del bottino discografico vacanziero, in vetta alla classifica si piazzano Emiliana Torrini, i Neon e Stockhausen.
Nel mezzo i Kissogram.
All'ultimo posto, ahimè, scivola Patrick Wolf, grande illusione e delusione (forse nutrivo troppe aspettative).

Parecchi fuori concorso mantengono le posizioni eterne di ogni capolavoro: non posso far competere certe - Lou Reed, Stooges - ristampe in cd acquistate per praticità e immutato affetto. Segnalo solo il celebre doppio live di Lou Reed del '78 Take no Prisoner - pescato in un negozietto fanese - che ormai pare introvabile anche in cd. Non lo ascoltavo da almeno vent'anni e lo scatto dell'accendino di Lou ha fatto scrosciare le stesse emozioni di un tempo.
N.B. Anche gli acquisti del bluesman sono stati esonerati dal concorso.

E se il mio pusher berlinese continua a lavorare così, l'intera discografia in vinile di Stockhausen potrebbe non essere più un sogno irrealizzabile (diciamo un periodo ipotetico del secondo tipo, ecco).
E tutto questo per dire che adesso questo malloppo eterogeneo pretende la sua precisa collocazione geografica. Brutta storia.

lunedì 24 agosto 2009

Di buon umore

Ieri sera, giusto per concedermi una botta di vita prima del temutissimo rientro post-vacanziero, sono andata a vedere "I love radio rock".
Ricordavo di averne letto qualcosa
qui.
Divertente, via.
Di fatto, stamattina ero l'unica in ufficio ad essere di buon umore, nonostante tutto.

mercoledì 19 agosto 2009

"Finalmente, grazie al post punk, non era più necessario sorridere"

"Io in quella fase (‘83/’84) scrivevo per una fanzine che si chiamava “Komakino” (come uno dei più famosi bootlegs dei Joy Division) e in quelle pagine, lo ricordo bene, c’era tutta la voglia di tormento, introspezione e sofferenza tipici di quegli adolescenti che si sentono “diversi”, “speciali” e “non capiti”. Penso sia sempre stato così, ogni epoca ha avuto la sua valvola di sfogo. E pur nel suo essere irreggimentato, il post-punk era comunque una splendida valvola di sfogo. Era la musica giusta per chi si guardava attorno, accendeva la radio, veniva bombardato da Cecchetto, dalla disco-music, dal pop melodico italiano, dall’hard-rock più becero e gli faceva schifo tutto. Si chiudeva in camera, si immergeva nel tormento di Ian Curtis o si lasciava trasportare dal giro di basso di Peter Hook dei New Order in “Leave me alone” e così si sentiva capito. Per me il post-punk è sempre stato questo. Essenzialità, demagogia nella giusta dose (sempre misurata), senso di appartenenza, una capacità rinnovata di scavare nell’animo dei ragazzi, una capacità (questa si, davvero nuova) di “gestire” la freddezza. Un elemento nuovo. Finalmente, grazie al post-punk, non era più necessario sorridere o “suonare con calore” per esprimere certi sentimenti. Lo si poteva fare anche con una batteria elettronica, con un giro di basso scheletrico, con una chitarra gelida e lontana suonata come lo facevano i Diaframma. Insomma, nessuno vietava di farlo ma sorridere non era più un obbligo. Questa è una rivoluzione, anche se, va detto, in effetti c’era poco da sorridere in quei giorni, immersi come eravamo in incubi nucleari (Reagan Breznev, The Day After), nel riflusso più reazionario (erano gli anni di “Drive In”) e nella “Milano da bere” che era diventata “L’Italia da bere”. In quegli anni, parlo sempre dell’83/84, conducevo un programma in una piccola radio locale del mio paese, Radio Fidenza Onda Libera. Quel programma si chiamava “1984” (un altro riferimento a Orwell e a certi incubi…) e in studio, ricordo, ospitavo gruppi come Faded Image, Underground Life, Le Masque, tutte figure che erano totalmente calate in quella logica. Ed ero orgoglioso della mia diversità. Al contrario di come li vedeva la gente, ritenevo quei gruppi e quei suoni qualcosa di positivo e di vitale. Anche ripensandoci oggi, non sbagliavo di tanto.

tratto da "Post Punk o Dark: solo una questione di termini?", conferenza di Luca Frazzi al Moonlight Festival di Fano, 31 luglio 2009.

venerdì 14 agosto 2009

Thanksgiving day


Grazie alla sensibilità e alla disponibilità di Annalisa Magi e Piero Balleggi, anche la creatura ha avuto il suo spazio e delle attenzioni che non credeva di meritare.
Un pensiero speciale anche al Prof. Alberto Berardi: si è a tal punto appassionato alla creatura da scoprire e svelarmi l'arcano che, attraverso Holles Street, scorre lungo l'asse Londra-Dublino. Gli insondabili misteri della creazione.
A
Erika un abbraccio.
Alla città di Fano una lode particolare per la cordialità dei suoi abitanti e per la lungimiranza dei suoi amministratori che hanno accettato una scommessa coraggiosa.

mercoledì 12 agosto 2009

Heaven stood still - In loving memory of Willy DeVille

“Ho avuto un incubo spaventoso. Ricordo solo il centro di un incrocio, i fari di un’auto che sta per investirmi. Mi arrampico su per una scarpata di sterpaglie e rovi. E la sensazione che Harry sia morto.
Se Harry morisse da chi potrei saperlo?
Un trafiletto su Repubblica? Sul Corriere? Una notiziola a margine, un’agenzia anonima, una foto di dieci anni fa…Il problema è che io non leggo più i quotidiani. Certo le quotazioni dei suoi dischi salirebbero subito. Lacrime di coccodrillo. Speculazione. Massa di idioti.”

Non so se le quotazioni dei dischi di Willy DeVille saliranno subito, se mai saliranno. E le agenzie che hanno battuto la notizia della sua morte erano anonime e frettolose. Nessuna precisa, nessuna corretta.
Pubblico volentieri questa foto con le note in olandese, tedesco e nell’inglese sgangherato a cui mi hanno abituata le fonti ufficiali olandesi perché Willy è stato molto più amato in Europa che in patria. Pubblico volentieri questa foto – che non mi piace particolarmente – perché è stata scelta dalla moglie e perché è l’immagine che mi è stata recapitata nella cassetta delle lettere con la scritta “in loving menory”.

Uno dei libri più intensi che ho letto e riletto ultimamente è Hotel de Dream di Edmund White: nella mia testa sovraffollata, l’immagine di Cora che assite Stephen Crane nei suoi ultimi giorni, si confondeva con naturalezza col pensiero quotidiano di Nina e Willy chiusi nel loro appartamente di New York ad aspettare la morte, con lei che gli legge le lettere dei fans e lui che si accontenta di guardare i biglietti perché è così stanco da non essere nemmeno più in grado di leggere.

Al richiamo ufficiale di inviare messaggi – rigorosamente cartacei – io, vigliaccamente, mi sono sottratta. Non volevo che a Willy arrivassero parole affettate. Sapevo che lui voleva sentire delle storie vere, voleva sapere da noi perché lo avevamo amato. Richiesta legittima da parte di un artista, soprattutto da parte di uno che ha sempre confuso arte e vita. Non ho mai trovato il coraggio, il tono giusto. C’è tempo, mi dicevo. C’è tempo.
Col tempo, magari, riuscirò a trovare il punto di convergenza tra la sorprendente, passionale, musicalissima vitalità di Willy e la pulsione di morte che l’ha corroso lentamente. Perché sulla scena Willy emanava un’energia che ti restava addosso per giorni. Ma quando a Lucerna, nel luglio di tre anni fa, lo avvicinai per strappargli un altro autografo, mi parve irriconoscibile: scheletrico, pallidissimo, aveva esattamente l’aria di uno che si era fatto di eroina per una vita intera.

Willy non era un grande chitarrista. Però aveva un talento smisurato, una musicalità animale, un gusto raro: lavorava d’istinto. L’istinto lo guidava a scegliersi i collaboratori giusti, musicisti geniali, straordinari, come David Keyes, Freddy Koella, Boris Kinberg, ognuno dei quali meriterebbe ben più di una banale citazione.

Un paio di giorni fa, ancora a Berlino, stavo trafficando con la valigia quando fui trapassata all’improvviso e senza ragione da una melodia inconfondibile: veloci come una folata di vento quelle semplici note mi risucchiarono in un presentimento, subito cancellato da un ragionevole, forzato ottimismo. Heaven stood still. Era quella la melodia.
“C’è una specie di misericordia universale, una saggezza superiore in questi richiami, in questi messaggi che viaggiano da un secolo all’altro attraverso la musica, le parole, le immagini. È nostro dovere metterci in ascolto e ubbidire. Non è stato un errore credere nella bellezza. E non è affatto un errore continuare a credere nell’arte, nella nostra arte.”