sabato 31 gennaio 2009

Parole sante - 2

Ancora Maurizio Pollini a proposito della musica colta contemporanea e della sua promozione:
"L'insensibilità della politica italiana è delittuosa. Proprio nei momenti di crisi è importante rafforzare il sostegno alle iniziative culturali, altro che penalizzarle. Ma ci sono poche ragioni per sperare con un governo che ripropone federalismo e presidenzialismo già bocciati in sede referendaria o vuole limitare l'indipendenza della magistratura. E l'opinione pubblica pare cieca e sorda"
Da un'intervista apparsa su "Repubblica" di oggi 31 gennaio 2009

giovedì 29 gennaio 2009

"He got three oranges, three lemons, three cherries..."

Allora: le tre pere che campeggiano nella testata del blog,
le tre arance che fanno bella mostra di sè nell'espositore delle patatine



Infine le tre caramelle nella vetrina di un negozio di ferramenta



"He got three oranges, three lemons, three cherries, three plums..." canta divinamente Joni Mitchell in "The dry cleaner from Des Moines" facendo riferimento alle combinazioni vincenti di una slot machine.

Vuoi vedere che questa abitudine irlandese di schierare tre frutti o tre caramelle su davanzali e scaffali, più che una bizzarra ossessione estetica, è semplicemente un modo simpatico di augurare e attirare la buona sorte?

Vinco qualcosa se davvero ho svelato l'arcano?

martedì 27 gennaio 2009

Dar da mangiare agli affamati

Ecco una delle ragioni per cui siamo ritornati in Irlanda.

mercoledì 21 gennaio 2009

Go n-éirí do thuras leat!

Giusto per dire che sto per prendere il largo, anche se solo per pochi giorni. Una boccata d'ossigeno che spero sia rigenerante.


Tra le altre cose, andrò in cerca anche della copertina per la mia creatura (che non significa che cercherò una piccola coperta per un bimbo...)


Per il resto mi affido al cielo e alla terra di quest'isola che ha sempre ospitato le mie inquietudini senza mai deludermi. A presto. Slàn.


P.S. non sono sicura che il mio gaelico sia impeccabile; se qualche esperto dovesse passare da queste parti, si faccia pure avanti e mi corregga, gliene sarò molto grata.

lunedì 19 gennaio 2009

Rage against the dying of the light

Qualcuno rimprovera a questo blog di essere troppo malinconico. Allora:

1) Spiacente ma non ho mai posseduto alcun talento comico e dispero di recuperare in tempi brevi
2) La realtà che ho a disposizione mi fa piuttosto schifo, per usare un eufemismo
3) I cardini dei miei ascolti musicali sono: da un lato la musica sacra tardo rinascimentale e barocca con tutto il suo bel campionario di lamentazioni e leçons de ténèbres, dall'altro la cosiddetta new wave britannica degli anni '80 con tutte le sue derive goticheggianti.

Conclusione: sono una scontrosa signora vecchio stile che detesta parlare a vanvera. Chi non è del giro è pregato di astenersi. E comunque tranquilli: la buona notizia è che si tratta di un blog a tempo determinato.

domenica 18 gennaio 2009

Note biografiche

L'editore vuole che gli mandi le note biografiche: ok, mi dico, nessun problema andranno benissimo quelle dell'altra volta, basterà aggiungere l'altra pubblicazione e...no, bisogna modificare anche l'ultima parte: vive e lavora nei pressi di Como non corrisponde più al vero. Va bene, ma cosa ci scrivo? E' cassintegrata nei pressi di Como? E' in attesa di emigrare in cerca di lavoro? Dico: perchè mi guardate così? Che è questo fuggi fuggi? Ho detto che sono cassintegrata, mica che sono radioattiva.

giovedì 15 gennaio 2009

Parole sante

"Se il linguaggio è nuovo o troppo avanzato in rapporto ad una determinata epoca, tocca al pubblico fare lo sforzo di adeguarsi."
Maurizio Pollini, da un'intervista apparsa sull'ultimo numero di Le Monde de la Musique

lunedì 12 gennaio 2009

Oddìo sono arrivate le bozze...

...adesso mi tocca lavorare sul serio, ho pensato in un primo momento. Poi è bastato uno sguardo, una scorsa veloce ed ogni entusiasmo è svanito all'istante. C'è un autore che riesca ancora a guardare con gli occhi dell'amore la propria creatura una volta che questa è stata spolpata e disossata da mani ignote, asettiche, fedeli solo alla logica del dovere?
Sarebbe stato meglio non aver mai cominciato, rifletto osservando il mio lavoro che ha la faccia di un figlio sconosciuto, un castello appiattito al suolo.
Dovrei dargli un occhio prima di partire, suppongo, dunque una settimana di tempo per sbrogliare anche la matassa prefazione e riorganizzare le note e concedergli pure quelle virgole se proprio le vogliono, ma per l'amor di Dio, quel passaggio deve stare dov'è così come mamma l'ha fatto, e via a barattare di questo passo...

Morale: il plico è qui accanto a me, nascosto in una bella busta a soffietto avana, e non ho cuore di metterci mano.

P.S. L'altra volta la faccenda non mi era sembrata così terribile...vorrà dire qualcosa? E se sì, cosa?

domenica 11 gennaio 2009

Parole di Qoèlet, figlio di Davide, re di Gerusalemme.


Parole di Qoèlet, figlio di Davide, re di Gerusalemme.

2 Vanità delle vanità, dice Qoèlet,
vanità delle vanità, tutto è vanità.

3 Quale utilità ricava l`uomo da tutto l`affanno
per cui fatica sotto il sole?

4 Una generazione va, una generazione viene
ma la terra resta sempre la stessa.
(Qoèlet 1, 1-4)

Per ogni cosa c`è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.

2 C`è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.

3 Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
[…]


Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace.
(Qoèlet 3, 1-3 […] 3,8)

sabato 10 gennaio 2009

“L’agnello cattivo” di Katja Lange-Müller

Andare via non serve a niente. Cercare una via d’uscita: da cosa, poi? Soja e Harry si sono già lasciati alle spalle parecchio: l’ ultima cosa che lei ha abbandonato è stata la Germania dell’Est, lui il carcere. Quando si incontrano hanno entrambi cancellato da un pezzo la parola speranza dal proprio vocabolario. Il traguardo principale e immediato è sopravvivere, vivacchiare, ricavarsi uno spazio, racimolare il necessario per non scivolare indietro. L’immagine di apertura del romanzo, che è poi la stessa che lo conclude, è quella di una quieta fissità: “assenza di qualsiasi bisogno” precisa Soja, voce del romanzo, che sintetizza così la sua esperienza della felicità.
Di fatto la relazione fra Soja e Harry parte subito male, è una storia sghemba e dal fiato corto sin dall’inizio. C’è una triste, apparentemente assurda determinazione nella donna che si ostina a mandare avanti un legame già nato con la macchia del dubbio. Soja sintetizza molto bene la logica di vita del tossico quando, nel suo monologo postumo rivolto a Harry, osserva: “I problemi che avevano a che fare col procurarsi la roba, li conoscevi bene; […]ti fornivano una specie di sostegno, forse erano addirittura il tuo unico scopo di vita; se non altro scacciavano la paura della morte che, se fossi rimasto pulito, prima o poi avrebbe probabilmente colto anche te”. E tuttavia questa è la stessa logica che spiega il suo accanimento nel mantenere in vita un amore che non è mai stato tale. E’ solo un gioco di ombre quello che tiene insieme le fragili derive di Harry e Soja: un sogno, un’illusione, un ricordo, l’istinto di sopravvivenza, ombre che Harry fiuta all’istante. “Soja sei come tutte le altre.[…] gli uomini forti ti rendono debole e gli uomini deboli ti rendono forte. E tu vuoi essere forte, vero?” Questa straziante lucidità di Harry (straziante perchè assolutamente devoluta all’autodistruzione) è la conferma di quali fossero, da subito, le sue intenzioni, di quanto distante sia e sia sempre stato l’amore dalle coordinate della sua esistenza.
L’incontro casuale fra Harry e Soja genera, sì, un colpo di fulmine; anche se di una sottospecie malata, è a suo modo un colpo di fulmine quello che fa scattare fra i due il meccanismo di riconoscimento immediato: cacciatore e preda si fiutano all’istante, sanno di essere fatti l’uno per l’altra, due vite difettose che si incastrano alla perfezione. Si riconoscono nel dolore intimo, oscuro, che entrambi possono solo far tacere con un qualche genere di dipendenza, si tratti di oppiacei o di sesso non ha importanza, purchè sia una dipendenza, un rito, qualcosa che riempia la vita, un’abitudine che procuri sollievo da quell’angoscia remota e insistente. Il tarlo dell’ autodisintegrazione rode Harry da sempre, da prima, molto prima dell’eroina; Harry l’autodistruzione ce l’ha nel DNA trasmessogli da un’ origine sgangherata che gli insegna subito il lato orrendo dell’esistenza. Quanto a Soja, la famiglia le inocula ben presto una dose sufficiente di vergogna e disgusto per sé e per ogni cosa.
Perché di questa storia si insista a dire che è una storia d’amore, io non lo so, o meglio credo di saperlo, ma non voglio dilungarmi in questa sede sul perché si continui a ritenere che un libro circoli meglio se targato, appunto, “storia d’amore” .


Molti anni dopo il disastro annunciato, Soja ripercorre al rallentatore ogni singola tappa di quella relazione che più di ogni altra le ha riempito la vita. L’espediente letterario cui ricorre Katja Lange-Müller per dare il via a questo attento riesame del passato è un quaderno di annotazioni di Harry ritrovato fra le poche cose che di lui sono rimaste. Le annotazioni di Harry sono di una autenticità sferzante: sono un capolavoro di immedesimazione da parte dell’autrice del romanzo, sono lame che scolpiscono i ricordi di Soja rendendoli più plastici, più vivi, più dolorosi. Una malinconica, feroce nostalgia, avrebbe potuto rappresentare un’eredità adeguata e soddisfacente per la donna. Ma Katja Lange- Müller fa molto di più per la sua protagonista: la trovata, spiazzante e drammatica, sta nel cancellare qualsiasi traccia di Soja dagli appunti di Harry, come se lei, la persona che più gli è stata vicina, per lui non avesse mai contato nulla. Ma è davvero questa la spiegazione? Qual è la ragione autentica per cui Harry non menziona mai quella che di fatto fu la sua donna?
La storia non lo dice e io non voglio esporre qui e ora la mia teoria. Quello che conta sottolineare, ora, è che il dubbio irrisolto finisce per essere, per Soja, un tormentoso dono, l’ultimo, il più originale da parte di Harry, una lacuna che la lega ancora di più a lui, una ferita che lei non smette di cullare dentro di sé, una ferita da cui non vuole guarire perché è tutto quello che le resta. Nel vuoto in cui galleggia la sua vita, Soja afferra il dubbio, il ricordo dell’ uomo e lo tiene avvinto a sé, come una coperta, un rituale che la scaldi. Il suo lungo monologo, la sua lunga lettera a Harry (bello l’espediente narrativo della seconda persona singolare che permette una rievocazione dettagliata e definitiva del passato) possono così tormentarla e tenerle compagnia a tempo indeterminato.

Vagando nel web in cerca di lettori sintonizzati sulla mia stessa lunghezza d’onda, mi sono imbattuta in un blog dove di questo romanzo si dice che ha un difetto: “è freddo”. Freddo? Certo, sicuramente, anzi dirò di più: “L’agnello cattivo” di Katja Lange-Müller è un libro gelido. Gelido come la morte e l’assenza di speranza, gelido come un inverno berlinese, gelido come “il bordo del marciapiede orlato di mucchietti di neve vecchia, ormai congelata e color fuliggine, marmorizzata di giallo dal piscio di cani ed esseri umani.”
E’ un libro gelido di angoscia, gelido e bellissimo, di una bellezza cruda, reale e spaventosa.




mercoledì 7 gennaio 2009

Con buona pace del vicinato che normalmente mi ritiene un'inetta perchè non partecipo mai ai riti campagnoli collettivi tipo grigliate ecc...

...questa mattina, sotto lo sguardo vigile della padrona di casa (come da foto), dalle 9.30 alle 11.30 spalatura neve orario continuato. Segni particolari? Nessuno, a parte una vescicola sulla mano destra. Mi ha fatto bene: avevo un bel po' di aggressività repressa da smaltire. E mentre con la pala affrontavo il ghiaccio incrostato sull'asfalto, determinata ad averne ragione, sentivo tutta la distanza fra la gratificazione che mi offriva quello sforzo e la frustrazione che invece ottengo abitualmente in ufficio, costretta come sono, ormai da mesi, ad inventrami qualcosa da fare. Il che mi porta a concludere che il mio proposito di mollare tutto e ricominciare da zero altrove forse non è poi così assurdo e irrealizzabile.

martedì 6 gennaio 2009

Michel Petrucciani (28 dicembre 1962 – 6 gennaio 1999)


Al cimitero Père Lachaise, la tomba di Michel Petrucciani si trova accanto a quella di Chopin.

lunedì 5 gennaio 2009

Lettera a Tiziano Scarpa: ancora su "Stabat mater"

Gentilissimo Tiziano Scarpa, ti sono molto grata per aver visitato questo modestissimo blogghino. Detesto scrivere recensioni come si conviene, personalmente la trovo un’attività tra le più noiose, seconda solo ai pranzi in famiglia. In realtà, c’erano altre idee che mi tormentavano mentre buttavo giù la mia riflessione sul tuo “Stabat mater” e mi piacerebbe rendertene partecipe.
E’ stata un’ispirazione improvvisa a impormi la lettura del tuo libro che giaceva nell’armadio insieme ad altri volumi ormai da qualche settimana. Ero alle prime pagine quando sono stata raggiunta dalla notizia della neonata trovata morta a Roma sotto un cavalcavia accanto alla giovane madre albanese. Sono certa di aver provato più pena per la madre che per la piccola inconsapevole e quelle immagini e quella pena da quel momento non hanno fatto che sovrapporsi e mescolarsi continuamente all’angoscia di Cecilia. Pensavo a quel parto avvenuto con ogni probabilità sotto il cavalcavia, pensavo alla solitudine e al dolore di quella madre e credo che l’intervento di Don Antonio Vivaldi abbia sollevato anche me, almeno temporaneamente, da quel pensiero ossessivo. Per una di quelle strane coincidenze che spesso si verificano coi libri, poco prima di attaccare la lettura di “Stabat mater” avevo scorso rapidamente l’autobiografia di Eric Clapton: fino ad allora avevo sempre ignorato che la nascita di Clapton fosse frutto di una relazione illecita e non potevo certo immaginare quanto la condizione di figlio illegittimo avesse influito sulla sua personalità, sulla sua fragilità, in definitiva facendo di lui un artista eccezionale.
Chissà: forse sono state proprio queste coincidenze a rendere la mia lettura come tu dici “intensa". O forse è stato il fatto che mi aspettavo di leggere un romanzo storico e invece mi sono trovata immersa in un’opera poetica. Pensavo continuamente alla voce di Cecilia, leggendola. La immaginavo raccontarsi su un palcoscenico, sentivo la sua voce bucare l'oscurità. Teoricamente, nella mia pseudo-recensione avrei dovuto riportare una citazione da ogni pagina. Posso dire di non aver perso un solo battito del cuore di Cecilia. Mi sono anche chiesta quanto profondamente tu l' abbia amata e quanto ti sia costato separarti da lei a romanzo ultimato. Mi sono chiesta, inevitabilmente, quanto di te sia stato trasferito in lei. Ho anche riflettuto sulla benedizione che è a volte la scrittura, quando offre la possibilità di trasformarsi in qualcun altro, più a lungo e più intensamente di quanto possa capitare ad un attore.
Per un attimo avrei voluto intitolare il post “Un singolare omaggio a Vivaldi” ma suonava davvero troppo ortodosso, troppo recensione. L’omaggio a Vivaldi, di fatto, lo si legge un po’ in filigrana, ed è bene così. Una celebrazione aperta sarebbe stata un controsenso per un artista che doveva essere perfettamente consapevole della fugacità di ogni cosa. Del resto il conforto della Bellezza è qualcosa che si sperimenta privatamente, in solitudine, e non ha nulla a che vedere con le lodi tributate dagli uomini.
Infine mi sono chiesta quanto in là io mi sia spinta nell’interpretazione del libro. Quante licenze io mi sia presa rispetto alle intenzioni dell’autore. Purtroppo un libro, una volta partorito, diventa di tutti, ed è singolare, magari anche deludente per l'autore riscontrare le differenti percezioni dei lettori, i diversi accenti, quante e quali correnti emotive siano state captate e quante e quali invece non siano nemmeno state avvertite, come giacimenti preziosi in una miniera inaccessibile.
Chissà se hai provato, stai provando la malinconia dell’autore che sente il proprio lavoro nelle mani degli altri. Mi viene in mente Don Antonio: "Dobbiamo avere l’umiltà di farci capire. Dobbiamo usare la nostra complicazione per tirarne ingegnosamente fuori la semplicità"
Da ultimo mi complimento per la scelta delle incisioni vivaldiane di riferimento: direi che la condivido, fatta eccezione per un paio di incisioni che non conosco.

Con profonda gratitudine
Rita

venerdì 2 gennaio 2009

"Stabat mater" di Tiziano Scarpa

“I bambini saltano fuori dalla pancia delle madri e scoppiano a piangere, ancora terrorizzati da quello che hanno abbandonato, dalla morte che hanno scampato. Sono pezzi di corpo della madre in fuga da lei.
Le madri cercano di tenerli legati a sé, li trattengono quando nascono, ma i bambini fuggono ugualmente, e allora le madri deluse si vendicano, aizzano contro di loro la morte, la corda che li trattiene diventa il serpente che morde il loro piccolo ventre, e gli inietta il veleno mortale. Anche loro sono segnati, il loro destino gli è stato inoculato nella pancia. Il serpente viene strappato via, ma i bambini portano al centro del loro corpo una cicatrice di madre, una cicatrice di morte, per sempre.”

Mi è difficile parlare di Cecilia, la protagonista dell’ultimo libro di Tiziano Scarpa, mi è difficile cucirle addosso una recensione perché sarebbe disonesto cercare di confinare la sua angoscia in poche righe formali, inquadrarla nel lavoro di uno scrittore. Quella che si leva dalle pagine del libro è una voce viva cui non si può non dare ascolto. Nel suo lungo monologo, la giovane Cecilia descrive meglio di chiunque altro i corridoi, le suore, il buio e le grate dell’Ospitale della Pietà che l’ha accolta dopo la nascita. Nessuno meglio di Cecilia può introdurci nell’orrore della sua solitudine, nella gabbia delle sue domande senza risposta. Grazie ad una scrittura asciutta e impeccabile, Scarpa le regala una lucidità spietata, uno sguardo affilato, un disincanto sapiente, forgiato in un dolore senza via d’uscita.

Scarpa localizza con precisione il punto da cui parte lo sguardo di Cecilia sui misteri dell’esistenza: la giovane si dibatte sul fondo melmoso della femminilità calpestata e da lì la prospettiva non può che essere uniforme. Maternità coincide con putridume immondo, maternità coincide con morte. Nascita e morte, amore e odio si inseguono automaticamente in un vortice senza senso. “Guardo Gesù sulla croce, è sporco, è sudato e insanguinato. Ha una ferita che perde sangue, come le donne. Mi assomiglia.”

La percezione che Cecilia ha di sé è legata essenzialmente all’essere figlia di una madre che non l’ha voluta. Essere violinista, anzi, un’eccellente violinista, certamente la migliore fra le giovani artiste educate all’Ospitale, per lei sembra non avere un significato particolare, è solo ordinaria amministrazione, ripetitiva sopportazione dell’esistenza (“Noi siamo sepolte vive in una delicata bara di musica”). Cecilia non può svincolare la propria identità da un osceno parto di sangue ed escrementi. La Cecilia artista non ha alcun potere liberatorio sulla Cecilia prigioniera della propria nascita.

A liberare la ragazza dalla sua placenta di angoscia sarà la musica di Don Antonio Vivaldi, il nuovo compositore e insegnante dell’Ospitale, le cui composizioni vibranti di vita subentrano agli schemi “stracchi” di Don Giulio. E’ una rivoluzione. Una rivoluzione artistica per la città e l’inizio della rivoluzione interiore per Cecilia. Per la prima volta la ragazza scopre di avere un interlocutore diverso dalla Morte. Le lettere che ossessivamente scrive alla madre (“calci e pugni dati alla cieca, per aria, in solitudine”) acquisiscono a tratti una dolcezza nuova:”Signora Madre, da qualche settimana mi succede qualcosa di strano. Ve ne siete accorta? Mentre vi scrivo, quasi senza accorgermene le lettere si trasformano in note. Una frase diventa una melodia, una parola viene accompagnata dal suo contrappunto. Mi sorprendo a comporre sulla carta, spontaneamente, trascrivendo un pensiero che era nato come un discorso e che si risolve in un suono”.

La musica di Don Antonio che vuole farsi voce autentica della natura, voce delle emozioni, offre una nuova prospettiva.
Il Vivaldi di Scarpa è tutt’altro che il musicista leggero e monotono trasmessoci da certa critica: è un individuo scaltro e un po’ cinico, uno che ha capito tutto della vita e cerca di attraversarla tenendo ben fisso davanti a sé l’unico obiettivo che la renda degna di essere vissuta o almeno sopportabile: l'Arte. Don Antonio non ha altre risposte da offrire a Cecilia: l’affinità tra i due consiste nello stesso sguardo disgustato sull’esistenza. “Credevi che bastasse avere dei genitori per essere amati? Essere orfana ti ha risparmiato una quantità di disillusioni”
Ma non esiste arte senza consapevolezza, senza accettazione della realtà: è questa la lezione fondamentale che Don Antonio impartisce a Cecilia quando la costringe a sgozzare un agnello dalle cui viscere verrà tratta una nuova corda di violino. La musica vera, quella per cui vale la pena di vivere, è quella fatta delle nostre lacrime e del nostro sangue.

La mia impressione è che questo ultimo, bellissimo romanzo di Scarpa, si concluda all’insegna della liberazione ma non necessariamente della redenzione. Si conclude nel nome di Cecilia e della sua identità ritrovata, non del ricongiungimento con la madre. Mi azzardo a supporre che Cecilia abbia, in qualche modo, perdonato la madre, forse semplicemente lasciandone dietro di sé il ricordo, scegliendo di mettere al centro della propria vita se stessa e non il dolore di un’altra donna. Ma dubito che la ragazza si sia riconciliata con l’idea della maternità. Mi piace pensare che il travestimento maschile non sia per Cecilia solo un espediente necessario alla fuga ma piuttosto un simbolo inequivocabile della sua nuova, smagliante identità. Mi piace pensare per Cecilia un futuro che non contempli necessariamente il dono e la condanna della maternità.