lunedì 29 giugno 2009

Eugenio Finardi a Estivaljazz 2009: in estrema sintesi

E’ pur vero che tutti si invecchia e si cambia ma Eugenio Finardi è cambiato decisamente in peggio. Ha estremizzato quella sua vena enfatica e retorica che un tempo gli si perdonava facilmente in virtù della bellezza di certe sue (vecchie) canzoni; ha assunto un’aria da predicatore che lo fa assomigliare anche fisicamente a Paulo Coelho; non riesce a infilare due frasi senza tirare in ballo la storia trita e ritrita della madre cantante lirica americana; ha la spudoratezza di proporre di questi tempi un brano come “Dolce Italia” (“…in Italia la gente è più sincera, la vita è più vera”… a Euge’, ma che ci pigli per il ****?); ha l’imperdonabile insensibilità di interrompere per ben due volte l’incalzante propulsione di “Diesel” per concedere due assoli jazzistici totalmente estranei allo stile e al senso del pezzo. Poi sarà meglio tacere dell’inaccettabile versione di “Verranno a chiederti del nostro amore” di De Andrè, resa con un inaudito, tronfio vibrato. E sarà pure il caso di stendere un velo pietoso su “Musica ribelle” e su quell’esortazione finale, lanciata con aria mistica e ispirata “…nessuno ci potrà fermare, dobbiamo lottare ecc ecc…”

Esempi di narcisismo ipertrofico ne abbiamo fino alla nausea e l’incoerenza è lo stile dominante: caro Eugenio Finardi, chi mai sei diventato?
L’impressione amara che persiste tre giorni dopo il concerto è quella di aver assistito allo spettacolo (neanche tanto ben rodato) di un guitto astuto, un illusionista ruffiano e approssimativo, l’ennesimo furbetto che propina una minestra riscaldata cavalcando l’onda nel più subdolo italian style di regime.

mercoledì 24 giugno 2009

Raccomandata

"OGGETTO: protocollo xx/xxx/xx/x/xxxxxxxx

Con riferimento al protocollo in oggetto, la presente per ribadire che non possiedo alcun apparecchio televisivo ed è mia ferma intenzione non provvedere a tale acquisto.

Nel rammentarVi che non è fatto obbligo ai cittadini di possedere televisori o guardare programmi televisivi, Vi invito a non insistere - né a mezzo di missive né inviando persone presso la mia abitazione - affinché io paghi per ciò che non possiedo.

Vi invito altresì a non formulare supposizioni circa ciò che possiedo o non possiedo e a non violare la mia libertà e la mia sfera privata: le insistenti insinuazioni circa la mia presunta disonestà nei confronti della Vostra azienda non possono che risultare offensive."


La capiranno stavolta o devo continuare a buttar via soldi in raccomandate?

lunedì 22 giugno 2009

"La veglia" di Anne Enright


“Mio fratello aveva idee molto chiare in tema di giustizia, però riusciva a far soffrire ogni singola persona che cercasse di amarlo, soprattutto, e in particolar modo, ogni singola donna con cui fosse andato a letto; eppure, dopo un’intera vita passata a spargere la sofferenza, è riuscito a dare la colpa a me. E io sono riuscita a sentirmi in colpa. Perché?
Ecco cosa fa il pudore. Ecco l’anatomia e il meccanismo di una famiglia – di un’intera cazzo di nazione – che annega nel pudore.”
Dico subito che “l’intera cazzo di nazione” è l’Irlanda ed è con passaggi del genere, di una immediatezza rovente, che Anne Enright, dublinese alla sua sesta pubblicazione, salva questo romanzo su cui mantengo comunque più di una riserva.
Nulla da eccepire sulla struttura generale del racconto, fluida e irregolare, totalmente al servizio dello stream of consciousness; una tecnica più tradizionale, del resto, sarebbe stata insufficiente a restituirci in presa diretta l’angosciato andirivieni tra passato e presente di Veronica Hegarty - tipica rappresentante della borghesia dublinese esplosa col boom economico degli anni ’90 - che deve fare i conti col suicidio di un fratello amatissimo quanto “difficile”. Peccato però che gli affondi nel passato siano così carichi di autocompiacimento da far perdere la strada al lettore: mi sembra che Anne Enright sia estremamente self-indulgent nel ricostruire per Veronica gli anni in cui sarebbero “stati gettati i semi della morte di suo fratello”, eccessivamente prodiga di dettagli che certo devono aver gratificato l’autrice ma che purtroppo riescono solo a disorientare senza fornire alcuna chiave di accesso al cuore segreto dell’opera, al nucleo generatore di tanta infelicità. E a questo punto nodale si arriva con una virata improvvisa, oserei dire dilettantesca: “E’ arrivato il momento di finirla con le favole e di raccontare senza indugi cosa successe a casa di Ada l’estate in cui io avevo otto anni e Liam quasi nove.”
Due sono secondo me le caratteristiche che fanno la differenza fra un vero romanziere e qualcuno che sa scrivere: la capacità di tendere la mano al lettore, quando necessario, senza darlo a vedere e l’abilità nell’arrivare alle conclusioni in modo graduale e naturale. In entrambi i casi Anne Enright se la cava con una certa approssimazione.

“I suicidi attirano sempre un bel po’ di folla. La gente si ammassa, preme sulle porte, si assiepa lungo i bordi della chiesa; vengono per principio, perché chi si suicida non lascia soltanto i parenti, lascia l’umanità intera. Vorrei tanto che fossero rimasti a casa.”
Il meglio del racconto sta tutto nel febbrile monologo interiore della protagonista, negli sguardi taglienti di una donna che non ha più ragioni per cedere alle ipocrisie. Belle, perché vibranti, sincere, mai sentimentali le rievocazioni del passato in famiglia dove i dettagli circa la singolare personalità del fratello – avvisaglie della sua sofferenza psichica - vengono disseminati con opportuna naturalezza.
Curioso come la stampa britannica abbia percepito “La veglia” come un romanzo tetro (in più di un’occasione è stato definito “bleak”): strano come non sia stata colta tutta l’amara ironia che lo percorre, quello stile così tipicamente irlandese che sa sempre tenere agganciate con disinvoltura tragedia e ilarità. E’ su questo terreno, quello del realismo spudorato, passato al setaccio di uno humour necessario (unica arma per la sopravvivenza) che Anne Enright si muove con assoluta padronanza, coinvolgendo il lettore nell’angoscia di Veronica Hegarty, disposta a un time out dalla normalità per inabissarsi nel malessere psichico – quello del fratello ma anche il proprio - e ottenere una risposta a tanto dolore.
L’indagine di Veronica, molto banalmente, a mio avviso, individua l’epicentro del disastro in un episodio di abuso sessuale accuratamente rimosso, perdendo così l’occasione di contestualizzare con chiarezza quella violenza che, di fatto, germina insieme alla follia nel fertile terreno della famiglia.
“Eccola, infine. La lenta marcia degli Hegarty superstiti: non so quale ferita stiamo mostrando a questa gente, a parte la ferita della famiglia. Perché, proprio in questo momento, scopro che far parte di una famiglia è il modo più straziante possibile di essere vivi.”
Ecco, è proprio questa l’incoerenza psicologica che limita il romanzo di Anne Enright: dopo tante aperte accuse alla famiglia, il rifiuto di portare a compimento l’indagine, la ricerca di un capro espiatorio (la violenza di un estraneo) pur di non recidere definitivamente il cordone ombelicale.
“Dio santo come odio la mia famiglia, questa gente che non ho mai scelto di amare, ma che amo lo stesso. E com’è patetico, questo tentativo di scappare da tutti loro.”
Per inciso, trovo che questo sia anche il limite dei libri di Colm Tóibín: conflitti, ipocrisie e tragedie, ragionevolmente rassettati nell’ultimo capitolo, fughe che si sciolgono in false partenze. Conclusioni che non propendono per un maturo superamento del conflitto, non auspicano sanificazioni e cicatrizzazioni ma finiscono col manifestare morbosa gratitudine per il dono di un Dna malato.
Peccato che, ancora oggi, sia questa l’immagine vincente della letteratura irlandese contemporanea. (“La veglia” ha vinto il Man Booker Prize 2007).


domenica 21 giugno 2009

La nausea - 2

Ora, può essere che, non essendo carnivora, io sia anche particolarmente sensibile al problema, ma è mai possibile, mi chiedo, che ogni santa domenica che dio manda in terra questi eccellenti individui che sono i miei vicini di casa debbano ammorbarmi le stanze con gli affumicanti effluvi provenienti dalle loro insopportabili grigliate?

sabato 20 giugno 2009

La nausea

Erano mesi, ormai, che non mi concedevo un sabato mattina di commissioni e (modesto) shopping in centro ed è stato penoso.
Non ho fatto che incrociare per strada tutte queste ragazze, queste giovani donne assolutamente identiche fra loro, tutte pettinate e accessoriate come le donne del presidente che invadono le prime pagine dei quotidiani.
La libreria e il negozio di dischi hanno offerto una boccata d'ossigeno, mi hanno evitato l'attacco di panico, ma l'angoscia era lì pronta a riagguantarmi all'uscita. Il cielo era così smagliante da riuscire solo ad amplificare il generale insulto al buon gusto.
Credo di aver consumato ogni residuo di tolleranza. Ho raschiato nel fondo del mio cuore ma non so più trovare un briciolo di disponibilità al compromesso.
Non sopporto più la prevedibilità e l'indistinguibilità.
Sono così stanca che non ho nemmeno più la forza di sollevare la testa e ruggire.
Qualcuno mi porti via di qui, per favore. E' il mio solo desiderio, in questo momento: andare via di qui senza guardarmi indietro.
"Fade far away, dissolve, and quite forget..."

giovedì 18 giugno 2009

Calling Orpheus back

"All my life I've made friends and lost lovers and talked about these two activities as though they were very different, opposed; but in truth love is the direct and therefore hopeless method of calling Orpheus back, whereas friendship is the equally hopeless because irrelevant attempt to find warmth in other shades. Odd that in the story Orpheus is lonely, too."

(Edmund White, "A boy's own story")

lunedì 15 giugno 2009

Tutti a Fano!

Insomma è confermato: la creatura ha fatto colpo sugli organizzatori del Moonlight Festival e così siamo diventati - la creatura ed io - parte del programma. Da non credere.

sabato 13 giugno 2009

13 giugno 1979 - 13 giugno 2009


Erano gli anni in cui i dischi andavo a comprarli in bicicletta al negozio del paese (non ancora nobilitato a cittadina) dove sono nata; anni in cui succedevano cose infinitamente più grandi di me, non poter prendere parte alle quali mi sembrava un'intollerabile ingiustizia. Scalpitavo dentro l'impotenza dei miei pochi anni.

Erano tempi in cui le notizie le apprendevamo prevalentemente dalla carta stampata. Così ho un ricordo abbastanza preciso di me e mio fratello chini su un quotidiano a leggere e rileggere quell'articolo che spiegava come il concerto che si sarebbe tenuto all'Arena di Milano si sarebbe trasformato in un'occasione commemorativa: infatti, i soldi necessari alle costose cure cui Demetrio Stratos si stava sottoponendo a New York ormai non servivano più. Demetrio Stratos, a New York, se n'era andato per sempre, a 34 anni. Credo di poter dire che fu uno dei primi grandi dolori della mia vita, la prima persona amata che mi sia stata tolta.

Ero una ragazzina delle scuole medie, all'epoca. Demetrio per me era un mito. Un modello. E poi era bellissimo.

domenica 7 giugno 2009

C'è sempre una prima volta

Votare, ho votato. Per le Europee, però. Perchè la scheda delle amministrative, per la prima volta nella mia vita, l'ho annullata. Con un insulto.
Si trattava di scegliere fra:

a) una lista capeggiata da un ex sindaco sei anni fa destituito dall'incarico per abusi sessuali nei confronti di alcuni suoi studenti. (Sì, ha osato ricandidarsi)

b) l'attuale giunta che è di fatto una costola della lista di cui sopra e mena gran vanto per aver rifatto i cessi delle elementari. (Come se io pretendessi la promozione per il semplice fatto che timbro in orario)

c) la Lega Nord. (Non aggiungo altro)

In tutta coscienza non ce n'era uno che potessi definire il male minore.

L'inutile creatura

Insomma sembra proprio che la mia povera creaturina sghemba sia uscita dal guscio. A tre anni dal concepimento.
Come mi sento? Malissimo.

Innanzitutto non è un bel momento per venire al mondo. E poi era infinitamente meglio quando i miei personaggi me li tenevo zitta zitta tutti per me, dentro di me. Era infinitamente meglio quando vivevo in simbiosi con loro. O loro vivevano al posto mio. O io evitavo di vivere perché avevo da pensare a loro.

La cosa che farei più volentieri adesso? I bagagli. Scomparire, dileguarmi, ecco cosa mi farebbe stare meglio. Il mio compito qui è finito. Tempo scaduto. Urge una nuova vita. (E tre anni fa sapevo benissimo come sarebbe andata a finire).

venerdì 5 giugno 2009

Acquisti compulsivi

Non ho neanche la più vaga idea di come, dove e quando li indosserò, ma ero troppo depressa per non comprarli.

Adorabile come sempre

"L'unica cosa importante per un essere umano è la gentilezza: se non ce l'hai, il resto non conta"
Chrissie Hynde da un'intervista apparsa sull'ultimo numero di
Jam

mercoledì 3 giugno 2009

Quattro anni


Quattro anni da quando l'abbiamo trascinata a valle durante un disastroso viaggio in trasportino.

Quattro anni da quando la lunatica signora della foto si è trasferita da un cantiere abbandonato a un quartiere residenziale.

Quattro anni di reciproca sopportazione, di musi lunghi, coccole e filetti di sgombro rapinati dalla tavola (per non parlare dei tranci di tonno e dei piselli e delle mozzarelle).

martedì 2 giugno 2009

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