martedì 31 marzo 2009

Franz Ferdinand live

Sono stati grandi. Molto più di quanto mi aspettassi. Anche il tetro palazzacciosharp mi è parso meno lugubre e sporco del solito. E pure il sound era più che dignitoso.
Pubblico foltissimo, perfettamente intonato, già ondeggiante e fuori di sè al secondo pezzo. Una scarica inarrestabile di riff acidi, il suono scuro e amaro di Kapranos e la sua voce che qua e là ricordava quella di Jim Morrison.
Bellissimi i sintetizzatori usati con parsimonia, gusto e rara intelligenza.
Finale orgasmico con rito percussivo collettivo e gran delirio psichedelico. Grandi. Grandi davvero, senza mezzi termini.
Il bluesman di casa si è espresso in termini lusinghieri dichiarandosi del tutto soddisfatto (anche di avermi regalato il biglietto, presumo).
L’unico appunto lo riservo alla scenografia: personalmente avrei fatto volentieri a meno del fondale quadrettato in puro stile piastrella che dava al tutto un’aria glacialmente sixties .

Menzione particolare per il gruppo d’apertura, i berlinesi Kissogram: elettro-pop sintetico ed energico di chiara ascendenza teutonica. Peccato per i testi in inglese, il tedesco sarebbe stato perfetto. Il fantasma di Falco aleggiava comunque.

giovedì 26 marzo 2009

Frivolezze di primavera

Determinata a gratificarmi con un autoregalo postumo di compleanno mi concedo un paio d’ore di libera uscita in centro. Il budget a mia disposizione è veramente limitato, dunque tutto ciò che mi è concesso è girovagare per grandi magazzini ed esplorare le collezioni dei marchi low price.
Da Promod scopro che la camicia e il gilet adocchiati lo scorso sabato, crollata la barriera della vetrina, hanno perso la metà del loro fascino: do un’occhiata in giro ma niente riesce a catturarmi, tanto più che, con tutto il rispetto per il continente asiatico, non se ne può più di cotonacci indiani e colli alla coreana. Effetti collaterali e congiunti di crisi e globalizzazione, d’accordo, ma anche la fantasia vuole la sua parte.
Dopo un’inutile puntatina da Sisley che persevera con collezioni incomprensibili, tra l’eccessivo e l’anonimo, passo da Oviesse a curiosare fra le novità di Fiorucci; naturalmente si tratta di modelli che una signora della mia età non dovrebbe nemmeno prendere in considerazione, ciononostante la mia attenzione viene subito calamitata da una graziosa camicia a fiori con corpino in pizzo simil macramé, una cosa che, volendo, portata sopra i jeans, potrebbe essere reinterpretata in chiave neohippy. Da notare che anni fa, quando giravo abitualmente per Milano (in total black come si conviene a una dark lady), avrei spaccato volentieri le vetrine del Fiorucci store di Piazza San Babila, simbolo per eccellenza di quel consumismo pacchiano e plasticoso sulle cui ceneri oggi proviamo a tenerci in piedi. Va riconosciuta a Fiorucci un’abilità non comune nel dare alla gente ciò di cui ha bisogno: in anni di vacche grasse ha lanciato una griffe spudoratamente orientata al superfluo; qualche anno fa, fiutato l’avanzare della crisi, ha pensato bene di raggiungere le teenagers attraverso la grande distribuzione e si è riciclato con un prodotto a basso costo, un prodotto a suo modo intelligente, con una sua precisa identità, fruibile e di buon gusto.

Altra tappa inevitabile, Zara. Dire caos è dire niente. Mi faccio strada fra cumuli di abiti che passano di mano in mano e una quantità di ragazzine con fidanzato al seguito: individuo un paio di pantaloni che potrebbero fare al caso mio se solo non fossero sporchi da far schifo; stessa cosa per un grazioso golfino in cotone color cipria leggermente striato di grigio qua e là. Il mio non-rapporto con Zara è destinato a durare.
Gli unici due negozi dove quasi certamente potrei trovare qualcosa di mio gusto a prezzi abbordabili aprono troppo tardi e io ho consumato la mia pazienza: forse è un segno del destino che mi suggerisce di non spendere i pochi soldi che ho in tasca e comunque l’impressione generale è che non è giornata. Del resto di cose veramente carine che avrei comprato senza battere ciglio ne ho viste solo due e tutte e due erano off limits: una, da Benetton, per evidenti motivi estetici – cioè di gambe lunghe e perfette e adolescenziali che non ho - e si trattava di una deliziosa gonnellina scampanata in lucida organza bianca (di viscosa, credo)
a motivi floreali nelle varianti rosa e azzurra, un confettino primaverile che avrei accompagnato con un paio di ballerine – incompatibili coi miei piedi - e un delicato twin set in tinta a manica corta; l’altro oggetto del mio desiderio rimasto tale mi ha fulminata da Coin ed era un superbo soprabitino di Desigual di cui mi sarei impossessata all’istante se solo il portafoglio me l’avesse permesso.

Rassegnata, una volta a casa, passo la serata navigando su cappellishop.com; fra modelli a cloche e i nuovi antipioggia avrei di che per celebrare degnamente il mio compleanno senza svenarmi. Ma il problema è che un copricapo necessita di uno spazio acconcio per essere riposto in modo adeguato e io di spazio non ne ho più. Potrò permettermi un nuovo cappello solo quando ne avrò eliminato uno vecchio.


P.S. Ho cercato di inserire i link per il sito dei cappelli e per quello di Desigual ma per qualche strana ragione non funzionano. Comunque il soprabitino è visionabile su www.desigual.com cliccando su colleciòn mujer






mercoledì 25 marzo 2009

Compleanni illustri

Per Magda Olivero oggi sono 99!



E per Elton John qualcuno meno ma anche a lui un pensiero devoto. Quando si dice una canzone perfetta:

martedì 24 marzo 2009

“Ma nelle notti di marzo non può bastare / La voce di una canzone per lasciarsi andare…”

“Guarda, non c’è verso…i Coldplay non riesco proprio a farmeli piacere…sarà la voce di lui, che ti devo dire…l’unica cosa che riesco ad ascoltare è quella canzone dell’ultimo disco, quella che avevi messo sul tuo blog, come si chiama?, ah Lost, ecco, sì, quella è l’unica che mi piace ma solo perché sembra una canzone dei Talking Heads, ci senti dentro tutto Brian Eno…e riesco a dire che mi piace perché nella mia testa suona con la voce di David Byrne…”

Ecco, quando mi sento dire queste cose a uno che potrebbe essere mio figlio mi rendo conto che i miei vent’anni appartengono al trapassato remoto. E mi chiedo: ma quanto acida e rompicoglioni sono diventata?

mercoledì 18 marzo 2009

Tutti al lavoro

Ecco, il nuovo imminente scatto legiferativo del governo mi sta già tirando su di morale. Che è tutto 'sto mortorio, 'sti giardini buoni solo da passarci con la rasaerba? Finalmente un po' di vita: ben presto dal pollaio del vicino vedrò sprizzare un palazzo a sei piani, vedrò verande espandersi fin sul ciglio della strada e sarà tutto un fiorire di protuberanze geometriche e pratici infissi in alluminio...mi par già di sentire lo scatarramento di un vecchio autocarro impolverato mentre arranca affrontando la salita, il martellamento pneumatico della domenica mattina, perchè è chiaro, quello che già vedo all'opera è un esercito di praticoni dopolavoristi amici degli amici di conoscenti che chissenefrega-le-norme-di-sicurezza...In perfetta sintonia con le direttive berlusconiane sarà tutto un alacre trionfo del fai da te (vedi alla voce lavoro nero).

martedì 17 marzo 2009

Non ho potuto resistere: Happy St Patrick's Day, anyway...


"Laggiù in fondo, attraverso l’arco di ingresso, si intravede uno spicchio di verde brillante e una piccola processione di donne, passeggini e bambini avanza lentamente sotto il porticato. E’ a questo genere di speranza che non potresti più rinunciare. Non sarà il paese più elettrizzante della terra quello che ti ha accolto, ma questa città sa offrire squarci di silenzio che ti sono di grande conforto. E’ una terra generosa, quella che ti ospita: tanta acqua, tanta luce, tanto vento. C’è tutto quello che serve per riappacificarsi con la vita, se non proprio con se stessi."

"Semper Dowland, semper dolens"

Chissà se è stata l'aria malsana che respiro in ufficio ad avvelenarmi fino al midollo. (A proposito del capo supremo: ho intercettato un suo carteggio elettronico in cui brillavano perle come "mi anno comunicato" e "non soddisfava").

Sto tagliando i ponti ad uno ad uno, con placida rassegnazione. Non ho a disposizione nessun presente accettabile a cui agganciarmi.

Ascolterei John Dowland tutto il giorno.

lunedì 16 marzo 2009

Due quartetti in un giorno

Incontro Dilene Ferraz nei corridoi del Museo d’Arte di Mendrisio: ci siamo conosciute ormai più di un anno fa ad un concerto di Franco D’Andrea cui aveva fatto seguito una cena improvvisata a casa di amici comuni e, incredibilmente, Dilene si ricorda ancora perfettamente di me. Anzi, prima di entrare in scena (lei è qui per prestare la sua voce al progetto Aries 4, formazione inedita di tre chitarre più voce) trova anche il tempo di abbracciarmi e chiedermi notizie della creatura.
E’ questa profonda, incontenibile umanità che io trovo sorprendente in Dilene. Invece di atteggiarsi a primadonna (e ne avrebbe tutto il diritto) lei sente il bisogno irrefrenabile di entrare sinceramente in contatto con l’interlocutore e trovo sconcertante la facilità con cui si mette nei miei panni. “E’ normale che tu ti senta a terra!” mi consola con quella sua inimitabile cadenza brasiliano-brianzola “Hai appena partorito!” Da artista, esperta nei misteriosi processi della creazione, lei è certa che, una volta ricaricata, troverò la voglia di fare un altro bebè. Benché la prospettiva mi appaia del tutto improbabile scelgo di darle ragione e di godermi lo spettacolo.


Qua e là non posso fare a meno di tracciare un parallelismo con le sperimentazioni vocali di Maria Pia De Vito, tanto più che il tessuto chitarristico su cui Dilene lavora riconduce spesso a Ralph Towner per la raffinatezza timbrica e armonica degli arrangiamenti. Tra acrobazie sopranili e vertiginose esplorazioni jazzistiche, Dilene aggancia musica colta e popolare in perfetta sintonia con compositori come Piazzolla e Villa Lobos.
Eccellenti le prove solistiche dei tre chitarristi (lo svizzero Gabriele Cavadini, l’italiano Claudio Farinone e l’argentino Sergio Fabian Lavia) e assolutamente perfetti i rapporti timbrici e ritmici fra la chitarra contrabbasso e le chitarre a 8 e a 6 corde.
Per fortuna mi è rimasta addosso un po’ della esplosiva vitalità di Dilene, rifletto a concerto terminato, raggiungendo la macchina, altrimenti dubito che sarei uscita indenne dal mestissimo centro storico di Mendrisio, assolato e semideserto in un mezzogiorno domenicale di quasi primavera.

Cambio di registro serale per il Quartetto di Tokyo a Varese. Seriosità non è il termine giusto. Semplicità, piuttosto. Enorme rispetto della partitura, assoluta coesione delle parti, un suono caldo e meraviglioso, perfettamente leggibili le armonie inconsuete che percorrono come venature pulsanti i quartetti per archi di Haydn, in barba ad una tradizione che fa del compositore austriaco il custode di un classicismo aureo, un emblema di impeccabile serenità. Nessun manierismo, nessuna leziosaggine: controllo assoluto sul celebre adagio del "Kaiser" Quartet (l’inno nazionale tedesco) e nessuna sbavatura romanticheggiante in Brahms al punto che io, che per Brahms non ho alcuna simpatia, mi sono ritrovata a concedergli un’attenuante.


Forse è vero che il programma di questa Stagione musicale varesina non è rivoluzionario, diciamo che spesso si nutre delle briciole che cadono da ben altre Stagioni; tuttavia io mi sento di difendere in pieno questa programmazione che offre artisti di livello mondiale a prezzi accessibili anche a persone dal reddito modesto come la sottoscritta. E poi, diciamocelo, io trovo estremamente democratico il ricorso a quelle spartane seggioline di plastica non numerate: non saranno il massimo della comodità ma costringono anche il pubblico più altolocato a sedere gomito a gomito con lo studente e il cassintegrato e a presentarsi al concerto in tenuta pratica; pochi orpelli, cappotti e giacche facilmente ripiegabili, insomma niente che non si possa custodire sulle ginocchia senza dar troppo fastidio al vicino di sedia.

domenica 15 marzo 2009

"..it is delusion all"

"Alas! it is delusion all:
The future cheats from afar,
Nor can we be what we recall,
Nor dare we think on what we are"
*
"E' triste! E' tutto un'illusione:
Il futuro ci inganna da lontano,
Non siamo più quel che ricordiamo,
Nè osiamo pensare a ciò che siamo"
(Lord Byron, "Stanzas for music", trad.Franco Buffoni)


martedì 10 marzo 2009

Dello scrivere e no

"Alex è la sola persona al mondo a cui io possa dire il disgusto che mi assale, a volte, la totale disillusione nei confronti del mio lavoro. Eppure lui sa che io mi sento vivo solo quando ho una traccia da seguire dentro la testa, sa riconoscere e rispettare le mie assenze, il mio sguardo cieco sulle cose, sa accudire pazientemente persino questa mia pigrizia malata. Non posso fare a meno di scrivere: lo faccio per confondere le carte, perché una volta che una cosa è scritta, è diventata di tutti ed io dimentico se mi sia appartenuta veramente e così confesso le mie colpe, le frantumo in infiniti granelli di sabbia e le disperdo. Ma scrivere presuppone una estrema fiducia in se stessi, e questa è merce che non ho sempre a portata di mano, senza contare che l’ispirazione è un lusso che non ci si può permettere costantemente: lo diceva anche Byron che uno non può vivere sempre con la febbre addosso. Occorrono idee chiare e una volontà esplosiva per riciclare le proprie miserie trasformandole in preziosi equilibri di forme. A volte mi sembra di avere l’anima logorata da questo esercizio di emozioni."

giovedì 5 marzo 2009

Senza capo nè coda

Scopro che tutti i miei calendari a casa e in ufficio sono ancora sintonizzati sul mese scorso.
In questi giorni sono così stanca, amareggiata, desolata, che mi è difficile trovare qualcosa da dire. Se potessi me ne starei tutto il giorno a guardare la pioggia, morbido sipario d'argento drappeggiato sui miei fallimenti. Vorrei che non smettesse mai di piovere. Me ne starei alla finestra a contemplare i ricami di perla sui rami ancora nudi, ammirerei i laghi di luce che si aprono a tratti in cielo e le manciate nere di uccelli che si lanciano sicuri lungo gelide rotte invisibili... Oh, la natura è molto più indaffarata di me in questo momento. Molto più motivata.
“I’m just a tired man, no words to say” ammette il protagonista di "Berlin" di Lou Reed verso la fine della storia ("The kids").
Ecco, è curioso come certi frammenti tratti dalle liriche di "Berlin" mi affiorino nella testa con fedele regolarità da circa trent’anni, cioè dal tempo in cui si sono depositati calcificandosi nella mia anima.
Ricordo una primavera di me ragazzina (ginnasiale, per la precisione) in viaggio verso il mare del Nord.
La notte, mentre il treno tagliava il ventre addormentato e bagnato dell’Europa, io facevo tesoro di quella solitudine irripetibile e mi stringevo al cuore un improbabile breviario reperito non so più dove: un volumetto di testi di Lou Reed che forse – ma non ne sono sicura - raggiungeva il 1978 con quel capolavoro misconosciuto che è "Street Hassle" (ma non potrei giurare di aver appreso lì il testo di "Waltzing Mathilda").
Fu forse in quell’occasione, su quel serpente nero che divorava l’Europa, che mandai a memoria i versi di Berlin per non dimenticarli mai più.
Ora, se io sia diventata quel che sono in conseguenza della musica che ho ascoltato in tenera età, o se io abbia cercato quella musica in ossequio agli oscuri richiami di un DNA malato, davvero non saprei dire.

martedì 3 marzo 2009

I love the rain


"Ti stai godendo la pioggia, finalmente: in libera uscita nel traffico quotidiano del centro, accogli con gratitudine le perle di cristallo che si frantumano sullo scivolo nero della tua giacca impermeabile. A farti deviare in Wicklow Street non è solo il desiderio di una zuppa bollente: l’ufficio di Deirdre è a una manciata di minuti da qui, stai rischiando di andare a sbatterci contro, meglio scantonare al più presto.
Gocce enormi abbracciano affrante la vetrina solo per ricadere rovinosamente giù lungo l’asfalto. Più della zuppa calda e saporita di lenticchie e cicoria è questo bel pezzo di pane integrale, dalla crosta croccante, cosparsa di semi di sesamo, a farti sentire al sicuro, a casa tua, in qualche modo."



lunedì 2 marzo 2009

Grazie a Dio è lunedì

“Grazie a Dio è lunedì. Appoggiato alla ringhiera di ferro battuto, in attesa che le principesse raccolgano tutti i loro pezzi, contempli la pietra umida dei gradini. Quella che inizia è una settimana in cui Julia e Chloe sono affidate alle tue cure, finalmente.
Deirdre ha già lasciato la casa da parecchio, scivolando via dentro la sua morbida auto argentata. Al di là del portoncino di legno laccato rosso, ornato di un lucido batacchio di ottone, sono in corso le ultime trattative sugli abiti e i giochi che si riveleranno fondamentali nei prossimi cinque giorni a Lansdowne Village, a ben tre minuti e mezzo d’auto da qui.
Osservi l’ingresso dell’edificio come se lo vedessi per la prima volta, come se non ne avessi mai avuto l’occasione prima d’ora. Non ti è mai appartenuta questa casa, finisci per ammettere. Non l’hai scelta, l’hai solo accettata. Con le bambine in arrivo, non c’era stato il tempo di cercare una nuova sistemazione e, soprattutto, tu non avevi avuto la forza e la lucidità necessarie a desiderare qualcosa di diverso: l’ombra nera che stazionava sulla tua giungla di orrori a Hampstead proiettava automaticamente una luce benefica e desiderabile su tutte le dimore altrui.
Di fatto ti eri installato in una casa voluta e progettata – piuttosto male – da qualcun altro per qualcun altro, ma te n’ eri accorto, non senza sorpresa, solo quando le nebbie più fitte della depressione avevano cominciato a diradarsi: con l’affiorare di un panorama sciatto e deludente, si era fatto strada in te il bisogno di uno spazio autonomo, un rifugio, una zona franca che affermasse la tua identità. Invece di proporti un’alternativa e rifondare insieme a te un nuovo progetto, Deirdre aveva accettato la tua risoluzione come una stravaganza fra le tante, un prodotto della tua personalità inquieta cui aveva ritenuto saggio non opporsi. Si era mostrata comprensiva e tollerante, ma tutt’altro che disposta a rinnegare le radici messe in quella casa con l’uomo che ti aveva preceduto.
Neanche la doccia di poco fa è riuscita a lavare via quella sensazione sgradevole che ti sei trascinato fra le lenzuola per tutta la notte: la distanza fra te e Deirdre, la percezione di un’estraneità che per la prima volta il sesso non ha potuto smaltire. Una fastidiosa solitudine consumata come un tempo nel buio dell’insonnia, accanto all’irritante regolarità del respiro addormentato di lei.
Per fortuna è lunedì, pensi ancora, grato a tutte le persone indaffarate che oggi incroceranno i tuoi passi, è lunedì e l’aria promette pioggia.”

domenica 1 marzo 2009

Un tranquillo sabato di panico

Figurati se organizzano una gara ciclistica proprio il sabato di Carnevale, pensavo aggrappandomi al buon senso. D’accordo, tutte quelle frecce nere e arancione disseminate lungo il percorso insinuavano un sospetto inquietante, ma la logica cui mi appellavo era ineccepibile: il centro sarebbe stato bloccato dal primo pomeriggio per la tradizionale sfilata dei carri, dunque la sovrapposizione di due manifestazioni con limitazione del traffico cittadino era davvero impensabile. L’assenza di qualsiasi altro tipo di segnalazione rendeva sempre più salda la mia convinzione.
Sbrigate le mie commisisioni in centro, tranquilla come un angioletto, imbocco la via del ritorno e, con questa, la prima coda. Keine Panik, penso confortata dalla radio che trasmette una canzone adorabile - “Reckless” degli UB40 -, a questo semaforo è regolare, succede tutti i sabati. Scopro però che a far singhiozzare il transito automobilistico non è come di consueto il semaforo ma una serie di transenne difese strenuamente da una vigilessa incazzata. Non sono previste spiegazioni, il traffico deve fluire, circolare, circolare, ordina il braccio della vigilessa che rotea senza sosta. Keine Panik di nuovo. Tranquilli, sono la regina della strada: allungo il giro, e che sarà mai, facciamoli contenti. Certo meno male che sono pratica della città, penso cercando di tenere a bada l’ansia che già fa capolino qua e là. Certo che Viale Valganna così deserto non l’ho mai visto neanche di notte. Vorrà dire qualcosa? Sono già inscatolata in un’altra processione di auto quando capisco che il guaio è più grosso del previsto. Anche Via Magenta è bloccata, così tutto il traffico, compreso quello proveniente dall’autostrada, viene stipato nella strettoia di Via Piave. Evito un paio di tamponamenti, faccio la seconda telefonata a casa e prego per i polmoni degli abitanti di Via Piave. Ho tutto il tempo di passare in rassegna i miei personali ricordi legati a questa tetra strada varesina (incredibile quante persone di mia conoscenza abbiano abitato o lavorato negli alveari che svettano cupi su questa strada riducendola ad una lunga gola grigia) e infine riaffioro in zona stazioni. Ma l’esasperazione sta già facendo presa. Sono reduce da un recentissimo tracollo psicofisico e fino ad ora ho recitato magnificamente la parte anche con me stessa, ma i segnali di insofferenza cominciano a manifestarsi: il ronzio all’orecchio, il formicolio, una tentata vertigine. Sono in ritardo di oltre mezz’ora e l’ansia ticchetta sempre più veloce. No, non può essere. Transenne anche qui. Mi hanno sbarrato la strada di casa. Non può essere, adesso passano i ciclisti – eccoli che arrivano, li vedo, arrancano ostinati nella loro fatica – e poi rimuoveranno le transenne e il traffico defluirà in modo sano. No, non rimuovono un accidente. Gli ausiliari del traffico si godono lo spettacolo come beoti, scambiano due parole con l’unico vigile presente, tutti ignorano la mia auto ferma in folle, i lampeggianti accesi, la portiera aperta, il mio attacco di panico conclamato. Mi sforzo di avvicinarmi alle transenne, urlo mulinando le braccia ma nessuno mi presta la minima attenzione: gli addetti al traffico si fanno i cazzi loro, gli automobilisti si fanno la guerra, i pedoni scantonano le auto a testa bassa, lenti e inarrestabili come fedeli in processione. Ad un tratto catturo un’occhiata del vigile.
”Devo andare a Como! Che strada faccio?” urlo a squarciagola in mezzo al fragore del traffico impazzito.
Il vigile allarga le braccia.
“Mi dica dove devo andare!” insisto disperata
“Eh signora” fa lui spazientito “mica posso dirle la strada, così, adesso…”
Non puoi dirmi la strada, così, adesso? Lascia che scavalco queste transenne e te lo faccio vedere io se non sai dirmi la strada…
“Ma mi dica dove devo andare!” imploro come una cretina invece di staccargli le orecchie a morsi come solo una frazione di secondo fa mi proponevo di fare.
E quello allarga di nuovo le braccia: “Eh o va di qua o va di là…”
“Ma cosa vuol dire di qua o di là?” replico con la forza della disperazione “Dove vado a finire di qua o di là? Io devo andare a Como!!!”
Alla fine, infastidito dalle mie lagne, si decide e con la massima scortesia mi ordina: “Vada a destra, dopo il ponte a sinistra”
E ci voleva tanto? E perchè non l’hai detto subito se lo sapevi?
Imponendomi dei respiri profondi e recitando il mantra “Questi sono pazzi, questi sono pazzi, questi sono pazzi…” provo a riprendere il controllo della mia auto. Sono costretta a svoltare lungo un percorso che non ripasso da più di dieci anni e che l’ansia mi dipinge come un labirinto inestricabile che non mi riporterà mai a casa.
Ora: è vero che il mio scarso senso dell’orientamento è quasi proverbiale presso chi mi conosce, ma sono sicura che in un momento di maggior lucidità, ben sapendo che Varese non è la foresta amazzonica, ne sarei uscita dignitosamente. Ad inquietarmi era l’incognita di un eventuale altro blocco inaspettato, l’ennesima coda e l’ennesima, non segnalata deviazione verso l’assurdo. Come si può paralizzare un centro cittadino e non indicare chiaramente dei percorsi alternativi? D’accordo, il mio attacco di panico può aver complicato le cose; ma una persona più razionale che si fosse trovata a Varese per la prima volta, avrebbe reagito meglio? Che senso ha organizzare delle manifestazioni che dovrebbero dare lustro alla città se poi si impedisce di fruirne a cittadini e non?

Alla fine, nonostante gambe e braccia tremanti e la testa così piena di bollicine che pareva lì lì per dissolversi da un momento all’altro, guidata evidentemente da qualche provvidenziale forza ultraterrena, sono riuscita a trovare la strada di casa. Alla mia sinistra un serpente infinito di auto attendeva paziente di entrare in città. Non so dire la pena che ho provato per tutti quegli automobilisti ignari che certo hanno sprecato qualche ora del loro tempo, hanno bruciato inutilmente ettolitri di carburante, hanno innalzato sensibilmente il tasso di inquinamento dell’aria (gli amici varesini mi riportano come in un bollettino di guerra i casi sempre più numerosi di conoscenti che si ammalano di tumore) e certamente non hanno raggiunto gli obiettivi che si erano prefissi.
Sfrecciando ormai libera verso casa, osservavo quelle povere auto sofferenti, costrette a singhiozzare fra prima e seconda, a sobbalzare su un asfalto indegno di un paese civile.
Non ne verremo mai fuori, riflettevo amaramente al triste spettacolo di quegli automobilisti muti e docili, ordinatamente in coda verso l’assurdo.