Scopro che tutti i miei calendari a casa e in ufficio sono ancora sintonizzati sul mese scorso.
In questi giorni sono così stanca, amareggiata, desolata, che mi è difficile trovare qualcosa da dire. Se potessi me ne starei tutto il giorno a guardare la pioggia, morbido sipario d'argento drappeggiato sui miei fallimenti. Vorrei che non smettesse mai di piovere. Me ne starei alla finestra a contemplare i ricami di perla sui rami ancora nudi, ammirerei i laghi di luce che si aprono a tratti in cielo e le manciate nere di uccelli che si lanciano sicuri lungo gelide rotte invisibili... Oh, la natura è molto più indaffarata di me in questo momento. Molto più motivata.
“I’m just a tired man, no words to say” ammette il protagonista di "Berlin" di Lou Reed verso la fine della storia ("The kids").
Ecco, è curioso come certi frammenti tratti dalle liriche di "Berlin" mi affiorino nella testa con fedele regolarità da circa trent’anni, cioè dal tempo in cui si sono depositati calcificandosi nella mia anima.
Ricordo una primavera di me ragazzina (ginnasiale, per la precisione) in viaggio verso il mare del Nord.
La notte, mentre il treno tagliava il ventre addormentato e bagnato dell’Europa, io facevo tesoro di quella solitudine irripetibile e mi stringevo al cuore un improbabile breviario reperito non so più dove: un volumetto di testi di Lou Reed che forse – ma non ne sono sicura - raggiungeva il 1978 con quel capolavoro misconosciuto che è "Street Hassle" (ma non potrei giurare di aver appreso lì il testo di "Waltzing Mathilda").
Fu forse in quell’occasione, su quel serpente nero che divorava l’Europa, che mandai a memoria i versi di Berlin per non dimenticarli mai più.
Ora, se io sia diventata quel che sono in conseguenza della musica che ho ascoltato in tenera età, o se io abbia cercato quella musica in ossequio agli oscuri richiami di un DNA malato, davvero non saprei dire.
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