domenica 1 marzo 2009

Un tranquillo sabato di panico

Figurati se organizzano una gara ciclistica proprio il sabato di Carnevale, pensavo aggrappandomi al buon senso. D’accordo, tutte quelle frecce nere e arancione disseminate lungo il percorso insinuavano un sospetto inquietante, ma la logica cui mi appellavo era ineccepibile: il centro sarebbe stato bloccato dal primo pomeriggio per la tradizionale sfilata dei carri, dunque la sovrapposizione di due manifestazioni con limitazione del traffico cittadino era davvero impensabile. L’assenza di qualsiasi altro tipo di segnalazione rendeva sempre più salda la mia convinzione.
Sbrigate le mie commisisioni in centro, tranquilla come un angioletto, imbocco la via del ritorno e, con questa, la prima coda. Keine Panik, penso confortata dalla radio che trasmette una canzone adorabile - “Reckless” degli UB40 -, a questo semaforo è regolare, succede tutti i sabati. Scopro però che a far singhiozzare il transito automobilistico non è come di consueto il semaforo ma una serie di transenne difese strenuamente da una vigilessa incazzata. Non sono previste spiegazioni, il traffico deve fluire, circolare, circolare, ordina il braccio della vigilessa che rotea senza sosta. Keine Panik di nuovo. Tranquilli, sono la regina della strada: allungo il giro, e che sarà mai, facciamoli contenti. Certo meno male che sono pratica della città, penso cercando di tenere a bada l’ansia che già fa capolino qua e là. Certo che Viale Valganna così deserto non l’ho mai visto neanche di notte. Vorrà dire qualcosa? Sono già inscatolata in un’altra processione di auto quando capisco che il guaio è più grosso del previsto. Anche Via Magenta è bloccata, così tutto il traffico, compreso quello proveniente dall’autostrada, viene stipato nella strettoia di Via Piave. Evito un paio di tamponamenti, faccio la seconda telefonata a casa e prego per i polmoni degli abitanti di Via Piave. Ho tutto il tempo di passare in rassegna i miei personali ricordi legati a questa tetra strada varesina (incredibile quante persone di mia conoscenza abbiano abitato o lavorato negli alveari che svettano cupi su questa strada riducendola ad una lunga gola grigia) e infine riaffioro in zona stazioni. Ma l’esasperazione sta già facendo presa. Sono reduce da un recentissimo tracollo psicofisico e fino ad ora ho recitato magnificamente la parte anche con me stessa, ma i segnali di insofferenza cominciano a manifestarsi: il ronzio all’orecchio, il formicolio, una tentata vertigine. Sono in ritardo di oltre mezz’ora e l’ansia ticchetta sempre più veloce. No, non può essere. Transenne anche qui. Mi hanno sbarrato la strada di casa. Non può essere, adesso passano i ciclisti – eccoli che arrivano, li vedo, arrancano ostinati nella loro fatica – e poi rimuoveranno le transenne e il traffico defluirà in modo sano. No, non rimuovono un accidente. Gli ausiliari del traffico si godono lo spettacolo come beoti, scambiano due parole con l’unico vigile presente, tutti ignorano la mia auto ferma in folle, i lampeggianti accesi, la portiera aperta, il mio attacco di panico conclamato. Mi sforzo di avvicinarmi alle transenne, urlo mulinando le braccia ma nessuno mi presta la minima attenzione: gli addetti al traffico si fanno i cazzi loro, gli automobilisti si fanno la guerra, i pedoni scantonano le auto a testa bassa, lenti e inarrestabili come fedeli in processione. Ad un tratto catturo un’occhiata del vigile.
”Devo andare a Como! Che strada faccio?” urlo a squarciagola in mezzo al fragore del traffico impazzito.
Il vigile allarga le braccia.
“Mi dica dove devo andare!” insisto disperata
“Eh signora” fa lui spazientito “mica posso dirle la strada, così, adesso…”
Non puoi dirmi la strada, così, adesso? Lascia che scavalco queste transenne e te lo faccio vedere io se non sai dirmi la strada…
“Ma mi dica dove devo andare!” imploro come una cretina invece di staccargli le orecchie a morsi come solo una frazione di secondo fa mi proponevo di fare.
E quello allarga di nuovo le braccia: “Eh o va di qua o va di là…”
“Ma cosa vuol dire di qua o di là?” replico con la forza della disperazione “Dove vado a finire di qua o di là? Io devo andare a Como!!!”
Alla fine, infastidito dalle mie lagne, si decide e con la massima scortesia mi ordina: “Vada a destra, dopo il ponte a sinistra”
E ci voleva tanto? E perchè non l’hai detto subito se lo sapevi?
Imponendomi dei respiri profondi e recitando il mantra “Questi sono pazzi, questi sono pazzi, questi sono pazzi…” provo a riprendere il controllo della mia auto. Sono costretta a svoltare lungo un percorso che non ripasso da più di dieci anni e che l’ansia mi dipinge come un labirinto inestricabile che non mi riporterà mai a casa.
Ora: è vero che il mio scarso senso dell’orientamento è quasi proverbiale presso chi mi conosce, ma sono sicura che in un momento di maggior lucidità, ben sapendo che Varese non è la foresta amazzonica, ne sarei uscita dignitosamente. Ad inquietarmi era l’incognita di un eventuale altro blocco inaspettato, l’ennesima coda e l’ennesima, non segnalata deviazione verso l’assurdo. Come si può paralizzare un centro cittadino e non indicare chiaramente dei percorsi alternativi? D’accordo, il mio attacco di panico può aver complicato le cose; ma una persona più razionale che si fosse trovata a Varese per la prima volta, avrebbe reagito meglio? Che senso ha organizzare delle manifestazioni che dovrebbero dare lustro alla città se poi si impedisce di fruirne a cittadini e non?

Alla fine, nonostante gambe e braccia tremanti e la testa così piena di bollicine che pareva lì lì per dissolversi da un momento all’altro, guidata evidentemente da qualche provvidenziale forza ultraterrena, sono riuscita a trovare la strada di casa. Alla mia sinistra un serpente infinito di auto attendeva paziente di entrare in città. Non so dire la pena che ho provato per tutti quegli automobilisti ignari che certo hanno sprecato qualche ora del loro tempo, hanno bruciato inutilmente ettolitri di carburante, hanno innalzato sensibilmente il tasso di inquinamento dell’aria (gli amici varesini mi riportano come in un bollettino di guerra i casi sempre più numerosi di conoscenti che si ammalano di tumore) e certamente non hanno raggiunto gli obiettivi che si erano prefissi.
Sfrecciando ormai libera verso casa, osservavo quelle povere auto sofferenti, costrette a singhiozzare fra prima e seconda, a sobbalzare su un asfalto indegno di un paese civile.
Non ne verremo mai fuori, riflettevo amaramente al triste spettacolo di quegli automobilisti muti e docili, ordinatamente in coda verso l’assurdo.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Questi sono autentici "sequestri di persona" , che per me sono piuttosto frequenti. Conosco benissimo il percorso mentale: l'ottimismo iniziale, il calcolo frenetico dei minuti (poi delle ore), la sequenza delle telefonate, le urlate, le "pestate" all'incolpevole volante . Se poi la situazione concede una scelta, questa è -invariabilmente - quella sbagliata.
Cambi corsia e ti trovi in quella bloccata; cambi percorso e ti perdi per le ragioni che hai elencato tu: il ritardo , il dubbio di orientamento (altre scelte, sbagliate quasi sapendole sbagliate), nel mio caso anche il buio.
E' un vero incubo , ad esempio, il percorso alternativo all'A8 che dalla uscita di Arluno dulla A4 , in teoria, in mezz'ora dovrebbe portarmi a casa. Un numero infinito di rotonde, di deviazioni, di indicazioni contradditorie mi hanno spesso portato a trovarmi in uno stato simile a quello che tu hai descritto.
Prossima macchina, navigatore. E così la mia vita avrà un'altra protesi.

Anonimo ha detto...

Guanabara, io non potrei reggere quotidianamente un simile stress...giuro non so come fai.