Incontro Dilene Ferraz nei corridoi del Museo d’Arte di Mendrisio: ci siamo conosciute ormai più di un anno fa ad un concerto di Franco D’Andrea cui aveva fatto seguito una cena improvvisata a casa di amici comuni e, incredibilmente, Dilene si ricorda ancora perfettamente di me. Anzi, prima di entrare in scena (lei è qui per prestare la sua voce al progetto Aries 4, formazione inedita di tre chitarre più voce) trova anche il tempo di abbracciarmi e chiedermi notizie della creatura.
E’ questa profonda, incontenibile umanità che io trovo sorprendente in Dilene. Invece di atteggiarsi a primadonna (e ne avrebbe tutto il diritto) lei sente il bisogno irrefrenabile di entrare sinceramente in contatto con l’interlocutore e trovo sconcertante la facilità con cui si mette nei miei panni. “E’ normale che tu ti senta a terra!” mi consola con quella sua inimitabile cadenza brasiliano-brianzola “Hai appena partorito!” Da artista, esperta nei misteriosi processi della creazione, lei è certa che, una volta ricaricata, troverò la voglia di fare un altro bebè. Benché la prospettiva mi appaia del tutto improbabile scelgo di darle ragione e di godermi lo spettacolo.
Qua e là non posso fare a meno di tracciare un parallelismo con le sperimentazioni vocali di Maria Pia De Vito, tanto più che il tessuto chitarristico su cui Dilene lavora riconduce spesso a Ralph Towner per la raffinatezza timbrica e armonica degli arrangiamenti. Tra acrobazie sopranili e vertiginose esplorazioni jazzistiche, Dilene aggancia musica colta e popolare in perfetta sintonia con compositori come Piazzolla e Villa Lobos.
Eccellenti le prove solistiche dei tre chitarristi (lo svizzero Gabriele Cavadini, l’italiano Claudio Farinone e l’argentino Sergio Fabian Lavia) e assolutamente perfetti i rapporti timbrici e ritmici fra la chitarra contrabbasso e le chitarre a 8 e a 6 corde.
Per fortuna mi è rimasta addosso un po’ della esplosiva vitalità di Dilene, rifletto a concerto terminato, raggiungendo la macchina, altrimenti dubito che sarei uscita indenne dal mestissimo centro storico di Mendrisio, assolato e semideserto in un mezzogiorno domenicale di quasi primavera.
Cambio di registro serale per il Quartetto di Tokyo a Varese. Seriosità non è il termine giusto. Semplicità, piuttosto. Enorme rispetto della partitura, assoluta coesione delle parti, un suono caldo e meraviglioso, perfettamente leggibili le armonie inconsuete che percorrono come venature pulsanti i quartetti per archi di Haydn, in barba ad una tradizione che fa del compositore austriaco il custode di un classicismo aureo, un emblema di impeccabile serenità. Nessun manierismo, nessuna leziosaggine: controllo assoluto sul celebre adagio del "Kaiser" Quartet (l’inno nazionale tedesco) e nessuna sbavatura romanticheggiante in Brahms al punto che io, che per Brahms non ho alcuna simpatia, mi sono ritrovata a concedergli un’attenuante.
Forse è vero che il programma di questa Stagione musicale varesina non è rivoluzionario, diciamo che spesso si nutre delle briciole che cadono da ben altre Stagioni; tuttavia io mi sento di difendere in pieno questa programmazione che offre artisti di livello mondiale a prezzi accessibili anche a persone dal reddito modesto come la sottoscritta. E poi, diciamocelo, io trovo estremamente democratico il ricorso a quelle spartane seggioline di plastica non numerate: non saranno il massimo della comodità ma costringono anche il pubblico più altolocato a sedere gomito a gomito con lo studente e il cassintegrato e a presentarsi al concerto in tenuta pratica; pochi orpelli, cappotti e giacche facilmente ripiegabili, insomma niente che non si possa custodire sulle ginocchia senza dar troppo fastidio al vicino di sedia.
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