“Mio fratello aveva idee molto chiare in tema di giustizia, però riusciva a far soffrire ogni singola persona che cercasse di amarlo, soprattutto, e in particolar modo, ogni singola donna con cui fosse andato a letto; eppure, dopo un’intera vita passata a spargere la sofferenza, è riuscito a dare la colpa a me. E io sono riuscita a sentirmi in colpa. Perché?
Ecco cosa fa il pudore. Ecco l’anatomia e il meccanismo di una famiglia – di un’intera cazzo di nazione – che annega nel pudore.”
Dico subito che “l’intera cazzo di nazione” è l’Irlanda ed è con passaggi del genere, di una immediatezza rovente, che Anne Enright, dublinese alla sua sesta pubblicazione, salva questo romanzo su cui mantengo comunque più di una riserva.
Nulla da eccepire sulla struttura generale del racconto, fluida e irregolare, totalmente al servizio dello stream of consciousness; una tecnica più tradizionale, del resto, sarebbe stata insufficiente a restituirci in presa diretta l’angosciato andirivieni tra passato e presente di Veronica Hegarty - tipica rappresentante della borghesia dublinese esplosa col boom economico degli anni ’90 - che deve fare i conti col suicidio di un fratello amatissimo quanto “difficile”. Peccato però che gli affondi nel passato siano così carichi di autocompiacimento da far perdere la strada al lettore: mi sembra che Anne Enright sia estremamente self-indulgent nel ricostruire per Veronica gli anni in cui sarebbero “stati gettati i semi della morte di suo fratello”, eccessivamente prodiga di dettagli che certo devono aver gratificato l’autrice ma che purtroppo riescono solo a disorientare senza fornire alcuna chiave di accesso al cuore segreto dell’opera, al nucleo generatore di tanta infelicità. E a questo punto nodale si arriva con una virata improvvisa, oserei dire dilettantesca: “E’ arrivato il momento di finirla con le favole e di raccontare senza indugi cosa successe a casa di Ada l’estate in cui io avevo otto anni e Liam quasi nove.”
Due sono secondo me le caratteristiche che fanno la differenza fra un vero romanziere e qualcuno che sa scrivere: la capacità di tendere la mano al lettore, quando necessario, senza darlo a vedere e l’abilità nell’arrivare alle conclusioni in modo graduale e naturale. In entrambi i casi Anne Enright se la cava con una certa approssimazione.
“I suicidi attirano sempre un bel po’ di folla. La gente si ammassa, preme sulle porte, si assiepa lungo i bordi della chiesa; vengono per principio, perché chi si suicida non lascia soltanto i parenti, lascia l’umanità intera. Vorrei tanto che fossero rimasti a casa.”
Il meglio del racconto sta tutto nel febbrile monologo interiore della protagonista, negli sguardi taglienti di una donna che non ha più ragioni per cedere alle ipocrisie. Belle, perché vibranti, sincere, mai sentimentali le rievocazioni del passato in famiglia dove i dettagli circa la singolare personalità del fratello – avvisaglie della sua sofferenza psichica - vengono disseminati con opportuna naturalezza.
Curioso come la stampa britannica abbia percepito “La veglia” come un romanzo tetro (in più di un’occasione è stato definito “bleak”): strano come non sia stata colta tutta l’amara ironia che lo percorre, quello stile così tipicamente irlandese che sa sempre tenere agganciate con disinvoltura tragedia e ilarità. E’ su questo terreno, quello del realismo spudorato, passato al setaccio di uno humour necessario (unica arma per la sopravvivenza) che Anne Enright si muove con assoluta padronanza, coinvolgendo il lettore nell’angoscia di Veronica Hegarty, disposta a un time out dalla normalità per inabissarsi nel malessere psichico – quello del fratello ma anche il proprio - e ottenere una risposta a tanto dolore.
L’indagine di Veronica, molto banalmente, a mio avviso, individua l’epicentro del disastro in un episodio di abuso sessuale accuratamente rimosso, perdendo così l’occasione di contestualizzare con chiarezza quella violenza che, di fatto, germina insieme alla follia nel fertile terreno della famiglia.
“Eccola, infine. La lenta marcia degli Hegarty superstiti: non so quale ferita stiamo mostrando a questa gente, a parte la ferita della famiglia. Perché, proprio in questo momento, scopro che far parte di una famiglia è il modo più straziante possibile di essere vivi.”
Ecco, è proprio questa l’incoerenza psicologica che limita il romanzo di Anne Enright: dopo tante aperte accuse alla famiglia, il rifiuto di portare a compimento l’indagine, la ricerca di un capro espiatorio (la violenza di un estraneo) pur di non recidere definitivamente il cordone ombelicale.
“Dio santo come odio la mia famiglia, questa gente che non ho mai scelto di amare, ma che amo lo stesso. E com’è patetico, questo tentativo di scappare da tutti loro.”
Per inciso, trovo che questo sia anche il limite dei libri di Colm Tóibín: conflitti, ipocrisie e tragedie, ragionevolmente rassettati nell’ultimo capitolo, fughe che si sciolgono in false partenze. Conclusioni che non propendono per un maturo superamento del conflitto, non auspicano sanificazioni e cicatrizzazioni ma finiscono col manifestare morbosa gratitudine per il dono di un Dna malato.
Peccato che, ancora oggi, sia questa l’immagine vincente della letteratura irlandese contemporanea. (“La veglia” ha vinto il Man Booker Prize 2007).
Ecco cosa fa il pudore. Ecco l’anatomia e il meccanismo di una famiglia – di un’intera cazzo di nazione – che annega nel pudore.”
Dico subito che “l’intera cazzo di nazione” è l’Irlanda ed è con passaggi del genere, di una immediatezza rovente, che Anne Enright, dublinese alla sua sesta pubblicazione, salva questo romanzo su cui mantengo comunque più di una riserva.
Nulla da eccepire sulla struttura generale del racconto, fluida e irregolare, totalmente al servizio dello stream of consciousness; una tecnica più tradizionale, del resto, sarebbe stata insufficiente a restituirci in presa diretta l’angosciato andirivieni tra passato e presente di Veronica Hegarty - tipica rappresentante della borghesia dublinese esplosa col boom economico degli anni ’90 - che deve fare i conti col suicidio di un fratello amatissimo quanto “difficile”. Peccato però che gli affondi nel passato siano così carichi di autocompiacimento da far perdere la strada al lettore: mi sembra che Anne Enright sia estremamente self-indulgent nel ricostruire per Veronica gli anni in cui sarebbero “stati gettati i semi della morte di suo fratello”, eccessivamente prodiga di dettagli che certo devono aver gratificato l’autrice ma che purtroppo riescono solo a disorientare senza fornire alcuna chiave di accesso al cuore segreto dell’opera, al nucleo generatore di tanta infelicità. E a questo punto nodale si arriva con una virata improvvisa, oserei dire dilettantesca: “E’ arrivato il momento di finirla con le favole e di raccontare senza indugi cosa successe a casa di Ada l’estate in cui io avevo otto anni e Liam quasi nove.”
Due sono secondo me le caratteristiche che fanno la differenza fra un vero romanziere e qualcuno che sa scrivere: la capacità di tendere la mano al lettore, quando necessario, senza darlo a vedere e l’abilità nell’arrivare alle conclusioni in modo graduale e naturale. In entrambi i casi Anne Enright se la cava con una certa approssimazione.
“I suicidi attirano sempre un bel po’ di folla. La gente si ammassa, preme sulle porte, si assiepa lungo i bordi della chiesa; vengono per principio, perché chi si suicida non lascia soltanto i parenti, lascia l’umanità intera. Vorrei tanto che fossero rimasti a casa.”
Il meglio del racconto sta tutto nel febbrile monologo interiore della protagonista, negli sguardi taglienti di una donna che non ha più ragioni per cedere alle ipocrisie. Belle, perché vibranti, sincere, mai sentimentali le rievocazioni del passato in famiglia dove i dettagli circa la singolare personalità del fratello – avvisaglie della sua sofferenza psichica - vengono disseminati con opportuna naturalezza.
Curioso come la stampa britannica abbia percepito “La veglia” come un romanzo tetro (in più di un’occasione è stato definito “bleak”): strano come non sia stata colta tutta l’amara ironia che lo percorre, quello stile così tipicamente irlandese che sa sempre tenere agganciate con disinvoltura tragedia e ilarità. E’ su questo terreno, quello del realismo spudorato, passato al setaccio di uno humour necessario (unica arma per la sopravvivenza) che Anne Enright si muove con assoluta padronanza, coinvolgendo il lettore nell’angoscia di Veronica Hegarty, disposta a un time out dalla normalità per inabissarsi nel malessere psichico – quello del fratello ma anche il proprio - e ottenere una risposta a tanto dolore.
L’indagine di Veronica, molto banalmente, a mio avviso, individua l’epicentro del disastro in un episodio di abuso sessuale accuratamente rimosso, perdendo così l’occasione di contestualizzare con chiarezza quella violenza che, di fatto, germina insieme alla follia nel fertile terreno della famiglia.
“Eccola, infine. La lenta marcia degli Hegarty superstiti: non so quale ferita stiamo mostrando a questa gente, a parte la ferita della famiglia. Perché, proprio in questo momento, scopro che far parte di una famiglia è il modo più straziante possibile di essere vivi.”
Ecco, è proprio questa l’incoerenza psicologica che limita il romanzo di Anne Enright: dopo tante aperte accuse alla famiglia, il rifiuto di portare a compimento l’indagine, la ricerca di un capro espiatorio (la violenza di un estraneo) pur di non recidere definitivamente il cordone ombelicale.
“Dio santo come odio la mia famiglia, questa gente che non ho mai scelto di amare, ma che amo lo stesso. E com’è patetico, questo tentativo di scappare da tutti loro.”
Per inciso, trovo che questo sia anche il limite dei libri di Colm Tóibín: conflitti, ipocrisie e tragedie, ragionevolmente rassettati nell’ultimo capitolo, fughe che si sciolgono in false partenze. Conclusioni che non propendono per un maturo superamento del conflitto, non auspicano sanificazioni e cicatrizzazioni ma finiscono col manifestare morbosa gratitudine per il dono di un Dna malato.
Peccato che, ancora oggi, sia questa l’immagine vincente della letteratura irlandese contemporanea. (“La veglia” ha vinto il Man Booker Prize 2007).
2 commenti:
l'altroieri alla milanesiana c'erano Enright e Toibin che non mi hanno molto impressionato (per i brani letti, non conosco i loro libri), ma poi c'era Banville, tutta un'altra storia... intellettuale ma ironico, e con una scrittura così precisa. Anche i libri sono così, se ben ricordo: misurati ma piuttosto implacabili.
Grazie Rose del mini reportage dalla milanesiana, mi è seccato molto non esserci ma ancora non riesco ad essere ovunque, e comunque immaginavo che sarebbe andata così. Guarda, Tóibín non mi dispiace per via di quella sua scrittura meticolosa, precisa, lenta ma mai noiosa perchè scavata, essenziale, c'è giusto quello che ci deve essere, insomma: però trovo che sia comunque molto sopravvalutato e poi quale sia - per me - il limite dei suoi libri l'ho già detto.
Confesso che di Banville ho letto solo "isola con fantasmi": urge approfondire!
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