“I bambini saltano fuori dalla pancia delle madri e scoppiano a piangere, ancora terrorizzati da quello che hanno abbandonato, dalla morte che hanno scampato. Sono pezzi di corpo della madre in fuga da lei.
Le madri cercano di tenerli legati a sé, li trattengono quando nascono, ma i bambini fuggono ugualmente, e allora le madri deluse si vendicano, aizzano contro di loro la morte, la corda che li trattiene diventa il serpente che morde il loro piccolo ventre, e gli inietta il veleno mortale. Anche loro sono segnati, il loro destino gli è stato inoculato nella pancia. Il serpente viene strappato via, ma i bambini portano al centro del loro corpo una cicatrice di madre, una cicatrice di morte, per sempre.”
Mi è difficile parlare di Cecilia, la protagonista dell’ultimo libro di Tiziano Scarpa, mi è difficile cucirle addosso una recensione perché sarebbe disonesto cercare di confinare la sua angoscia in poche righe formali, inquadrarla nel lavoro di uno scrittore. Quella che si leva dalle pagine del libro è una voce viva cui non si può non dare ascolto. Nel suo lungo monologo, la giovane Cecilia descrive meglio di chiunque altro i corridoi, le suore, il buio e le grate dell’Ospitale della Pietà che l’ha accolta dopo la nascita. Nessuno meglio di Cecilia può introdurci nell’orrore della sua solitudine, nella gabbia delle sue domande senza risposta. Grazie ad una scrittura asciutta e impeccabile, Scarpa le regala una lucidità spietata, uno sguardo affilato, un disincanto sapiente, forgiato in un dolore senza via d’uscita.
Scarpa localizza con precisione il punto da cui parte lo sguardo di Cecilia sui misteri dell’esistenza: la giovane si dibatte sul fondo melmoso della femminilità calpestata e da lì la prospettiva non può che essere uniforme. Maternità coincide con putridume immondo, maternità coincide con morte. Nascita e morte, amore e odio si inseguono automaticamente in un vortice senza senso. “Guardo Gesù sulla croce, è sporco, è sudato e insanguinato. Ha una ferita che perde sangue, come le donne. Mi assomiglia.”
La percezione che Cecilia ha di sé è legata essenzialmente all’essere figlia di una madre che non l’ha voluta. Essere violinista, anzi, un’eccellente violinista, certamente la migliore fra le giovani artiste educate all’Ospitale, per lei sembra non avere un significato particolare, è solo ordinaria amministrazione, ripetitiva sopportazione dell’esistenza (“Noi siamo sepolte vive in una delicata bara di musica”). Cecilia non può svincolare la propria identità da un osceno parto di sangue ed escrementi. La Cecilia artista non ha alcun potere liberatorio sulla Cecilia prigioniera della propria nascita.
A liberare la ragazza dalla sua placenta di angoscia sarà la musica di Don Antonio Vivaldi, il nuovo compositore e insegnante dell’Ospitale, le cui composizioni vibranti di vita subentrano agli schemi “stracchi” di Don Giulio. E’ una rivoluzione. Una rivoluzione artistica per la città e l’inizio della rivoluzione interiore per Cecilia. Per la prima volta la ragazza scopre di avere un interlocutore diverso dalla Morte. Le lettere che ossessivamente scrive alla madre (“calci e pugni dati alla cieca, per aria, in solitudine”) acquisiscono a tratti una dolcezza nuova:”Signora Madre, da qualche settimana mi succede qualcosa di strano. Ve ne siete accorta? Mentre vi scrivo, quasi senza accorgermene le lettere si trasformano in note. Una frase diventa una melodia, una parola viene accompagnata dal suo contrappunto. Mi sorprendo a comporre sulla carta, spontaneamente, trascrivendo un pensiero che era nato come un discorso e che si risolve in un suono”.
La musica di Don Antonio che vuole farsi voce autentica della natura, voce delle emozioni, offre una nuova prospettiva.
Il Vivaldi di Scarpa è tutt’altro che il musicista leggero e monotono trasmessoci da certa critica: è un individuo scaltro e un po’ cinico, uno che ha capito tutto della vita e cerca di attraversarla tenendo ben fisso davanti a sé l’unico obiettivo che la renda degna di essere vissuta o almeno sopportabile: l'Arte. Don Antonio non ha altre risposte da offrire a Cecilia: l’affinità tra i due consiste nello stesso sguardo disgustato sull’esistenza. “Credevi che bastasse avere dei genitori per essere amati? Essere orfana ti ha risparmiato una quantità di disillusioni”
Ma non esiste arte senza consapevolezza, senza accettazione della realtà: è questa la lezione fondamentale che Don Antonio impartisce a Cecilia quando la costringe a sgozzare un agnello dalle cui viscere verrà tratta una nuova corda di violino. La musica vera, quella per cui vale la pena di vivere, è quella fatta delle nostre lacrime e del nostro sangue.
La mia impressione è che questo ultimo, bellissimo romanzo di Scarpa, si concluda all’insegna della liberazione ma non necessariamente della redenzione. Si conclude nel nome di Cecilia e della sua identità ritrovata, non del ricongiungimento con la madre. Mi azzardo a supporre che Cecilia abbia, in qualche modo, perdonato la madre, forse semplicemente lasciandone dietro di sé il ricordo, scegliendo di mettere al centro della propria vita se stessa e non il dolore di un’altra donna. Ma dubito che la ragazza si sia riconciliata con l’idea della maternità. Mi piace pensare che il travestimento maschile non sia per Cecilia solo un espediente necessario alla fuga ma piuttosto un simbolo inequivocabile della sua nuova, smagliante identità. Mi piace pensare per Cecilia un futuro che non contempli necessariamente il dono e la condanna della maternità.
2 commenti:
Grazie, è la lettura più intensa che il mio libro abbia ricevuto.
tizianoscarpa@gmail.com
Grazie a te per aver scritto il libro. Era da molto che una lettura non mi emozionava così profondamente.
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