Andare via non serve a niente. Cercare una via d’uscita: da cosa, poi? Soja e Harry si sono già lasciati alle spalle parecchio: l’ ultima cosa che lei ha abbandonato è stata la Germania dell’Est, lui il carcere. Quando si incontrano hanno entrambi cancellato da un pezzo la parola speranza dal proprio vocabolario. Il traguardo principale e immediato è sopravvivere, vivacchiare, ricavarsi uno spazio, racimolare il necessario per non scivolare indietro. L’immagine di apertura del romanzo, che è poi la stessa che lo conclude, è quella di una quieta fissità: “assenza di qualsiasi bisogno” precisa Soja, voce del romanzo, che sintetizza così la sua esperienza della felicità.
Di fatto la relazione fra Soja e Harry parte subito male, è una storia sghemba e dal fiato corto sin dall’inizio. C’è una triste, apparentemente assurda determinazione nella donna che si ostina a mandare avanti un legame già nato con la macchia del dubbio. Soja sintetizza molto bene la logica di vita del tossico quando, nel suo monologo postumo rivolto a Harry, osserva: “I problemi che avevano a che fare col procurarsi la roba, li conoscevi bene; […]ti fornivano una specie di sostegno, forse erano addirittura il tuo unico scopo di vita; se non altro scacciavano la paura della morte che, se fossi rimasto pulito, prima o poi avrebbe probabilmente colto anche te”. E tuttavia questa è la stessa logica che spiega il suo accanimento nel mantenere in vita un amore che non è mai stato tale. E’ solo un gioco di ombre quello che tiene insieme le fragili derive di Harry e Soja: un sogno, un’illusione, un ricordo, l’istinto di sopravvivenza, ombre che Harry fiuta all’istante. “Soja sei come tutte le altre.[…] gli uomini forti ti rendono debole e gli uomini deboli ti rendono forte. E tu vuoi essere forte, vero?” Questa straziante lucidità di Harry (straziante perchè assolutamente devoluta all’autodistruzione) è la conferma di quali fossero, da subito, le sue intenzioni, di quanto distante sia e sia sempre stato l’amore dalle coordinate della sua esistenza.
L’incontro casuale fra Harry e Soja genera, sì, un colpo di fulmine; anche se di una sottospecie malata, è a suo modo un colpo di fulmine quello che fa scattare fra i due il meccanismo di riconoscimento immediato: cacciatore e preda si fiutano all’istante, sanno di essere fatti l’uno per l’altra, due vite difettose che si incastrano alla perfezione. Si riconoscono nel dolore intimo, oscuro, che entrambi possono solo far tacere con un qualche genere di dipendenza, si tratti di oppiacei o di sesso non ha importanza, purchè sia una dipendenza, un rito, qualcosa che riempia la vita, un’abitudine che procuri sollievo da quell’angoscia remota e insistente. Il tarlo dell’ autodisintegrazione rode Harry da sempre, da prima, molto prima dell’eroina; Harry l’autodistruzione ce l’ha nel DNA trasmessogli da un’ origine sgangherata che gli insegna subito il lato orrendo dell’esistenza. Quanto a Soja, la famiglia le inocula ben presto una dose sufficiente di vergogna e disgusto per sé e per ogni cosa.
Perché di questa storia si insista a dire che è una storia d’amore, io non lo so, o meglio credo di saperlo, ma non voglio dilungarmi in questa sede sul perché si continui a ritenere che un libro circoli meglio se targato, appunto, “storia d’amore” .
Molti anni dopo il disastro annunciato, Soja ripercorre al rallentatore ogni singola tappa di quella relazione che più di ogni altra le ha riempito la vita. L’espediente letterario cui ricorre Katja Lange-Müller per dare il via a questo attento riesame del passato è un quaderno di annotazioni di Harry ritrovato fra le poche cose che di lui sono rimaste. Le annotazioni di Harry sono di una autenticità sferzante: sono un capolavoro di immedesimazione da parte dell’autrice del romanzo, sono lame che scolpiscono i ricordi di Soja rendendoli più plastici, più vivi, più dolorosi. Una malinconica, feroce nostalgia, avrebbe potuto rappresentare un’eredità adeguata e soddisfacente per la donna. Ma Katja Lange- Müller fa molto di più per la sua protagonista: la trovata, spiazzante e drammatica, sta nel cancellare qualsiasi traccia di Soja dagli appunti di Harry, come se lei, la persona che più gli è stata vicina, per lui non avesse mai contato nulla. Ma è davvero questa la spiegazione? Qual è la ragione autentica per cui Harry non menziona mai quella che di fatto fu la sua donna?
La storia non lo dice e io non voglio esporre qui e ora la mia teoria. Quello che conta sottolineare, ora, è che il dubbio irrisolto finisce per essere, per Soja, un tormentoso dono, l’ultimo, il più originale da parte di Harry, una lacuna che la lega ancora di più a lui, una ferita che lei non smette di cullare dentro di sé, una ferita da cui non vuole guarire perché è tutto quello che le resta. Nel vuoto in cui galleggia la sua vita, Soja afferra il dubbio, il ricordo dell’ uomo e lo tiene avvinto a sé, come una coperta, un rituale che la scaldi. Il suo lungo monologo, la sua lunga lettera a Harry (bello l’espediente narrativo della seconda persona singolare che permette una rievocazione dettagliata e definitiva del passato) possono così tormentarla e tenerle compagnia a tempo indeterminato.
Vagando nel web in cerca di lettori sintonizzati sulla mia stessa lunghezza d’onda, mi sono imbattuta in un blog dove di questo romanzo si dice che ha un difetto: “è freddo”. Freddo? Certo, sicuramente, anzi dirò di più: “L’agnello cattivo” di Katja Lange-Müller è un libro gelido. Gelido come la morte e l’assenza di speranza, gelido come un inverno berlinese, gelido come “il bordo del marciapiede orlato di mucchietti di neve vecchia, ormai congelata e color fuliggine, marmorizzata di giallo dal piscio di cani ed esseri umani.”
E’ un libro gelido di angoscia, gelido e bellissimo, di una bellezza cruda, reale e spaventosa.
Nessun commento:
Posta un commento