Ne sconsiglio vivamente la visione, a meno che non siate appassionati di horrors verminosi.
Se avete amato il romanzo di Wilde o se, come me, l'avete riletto di recente, non sprecate i soldi del biglietto perché il film non trasmette neanche in minima parte l'atmosfera inquietante del romanzo.
Tutto ciò che Wilde lascia intendere, qui viene ampiamente mostrato, allo scopo, presumo, di sopperire alla totale assenza di profondità, di indagine introspettiva, di sfumature.
State a casa a leggere un libro che è meglio.
lunedì 30 novembre 2009
sabato 28 novembre 2009
Blues for children
Beneficenza e solidarietà non sono più tanto di moda di questi tempi, ma sembra che qualcuno non abbia perso l'abitudine di pensare che in qualche caso anche un piccolo contributo può servire.
Va da sè che anche il Bluesman è fra i "benevoli"* elencati nell'articolo.
*(per la traduzione di "benevoli" consultare lo Svizzionario)
Va da sè che anche il Bluesman è fra i "benevoli"* elencati nell'articolo.
*(per la traduzione di "benevoli" consultare lo Svizzionario)
Libri a Milano
Come interpretare il recente exploit di fiere dell'editoria indipendente? Siamo tutti lettori o tutti scrittori?
venerdì 27 novembre 2009
Capitolo 3 "Alex" - dodicesima puntata
Quando Didi lascia la stanza, tutta l’angoscia di una domenica in famiglia ti si conficca nello stomaco tagliandolo in due con lenta perfidia. Sia benedetto il letto accogliente in cui ti stanno costringendo le vertigini. Poi allunghi la mano sotto le lenzuola per cercare la copia del diario di Lynn su cui hai chiuso gli occhi ieri sera, ignaro del risveglio disgustoso che ti aspettava.
“All’epoca la mia vita dipendeva dai giornali musicali britannici. Li comperavo tutti, scorrevo scrupolosamente ogni più piccolo trafiletto in cerca del tuo nome. Mi nutrivo di qualsiasi dettaglio su di te. Detestavo quei giornali, il tono arrogante delle recensioni, la presunzione e una certa aggressività da parte di chi ci scriveva. Li odiavo, ma erano l’unica fonte di notizie sul tuo conto e perciò non potevo farne a meno.
Io, io che cucivo insieme ogni più piccolo frammento della tua vita e della tua arte per arricchire il meraviglioso progetto del mio amore per te, io avrei potuto continuare a ignorare beatamente la tua relazione con Alexis Ducrey se un giorno non mi fossi imbattuta in quella famosa intervista sul New Musical Express dove si dava tutto per scontato. Rilessi l’articolo così tante volte che lo imparai a memoria, parola per parola e, ripensandoci ora, posso ancora rivivere lo choc, il dubbio, il tormento che provai allora.
Si comporta così anche a casa?, ti chiedeva quello stronzo sfacciato di giornalista riferendosi ad Alex al quale, all’inizio dell’articolo, aveva dato dell’autistico per essersi isolato in un angolo ad ascoltarsi musica in cuffia.
È tutto a posto, tutto normale, era stata la tua risposta, Alex è ancor meno interessato alla realtà di quanto lo sia io, sì, lui ha questa tendenza ad isolarsi in un mondo tutto suo ma è il suo solo difetto, non mi riesce di trovargliene altri, così mi è piuttosto facile perdonarlo…
A CASA. Così c’era scritto: A CASA. E la tua risposta suggeriva un’intimità che era difficile attribuire ad una semplice amicizia. Adoro andare in tour, dicevi poi in un altro punto dell’intervista, è un buon pretesto per stare con Alex 24 ore su 24.
All’inizio aveva prevalso la sorpresa, poi era subentrata la delusione: da quanto tempo durava? Da quanto tempo io vivevo all’oscuro di tutto? Io, proprio io che vivevo unicamente per te, sicura di averti compreso meglio di chiunque altro al mondo, io non ero nemmeno stata sfiorata dal sospetto di ciò che era accaduto dentro il tuo cuore. Era una sconfitta inaccettabile.
Dovevo capire. Entrare nella logica che sosteneva la vostra relazione. Concentrai le mie attenzioni su Alex. Volevo arrivare a vederlo coi tuoi occhi.
Purtroppo il materiale a mia disposizione era veramente scarso - a quel tempo Internet era ancora fantascienza - ma avevo delle videocassette pirata di alcuni vostri vecchi concerti e le riesaminai attentamente. La mia analisi non produsse grandi risultati. L’unico particolare che a quel punto potevo interpretare sotto una nuova luce era l’atteggiamento di Alex sul palco: quando non si isolava fra i suoi amplificatori o a cercarsi i suoni dentro la testa, non aveva occhi che per te.
Solo il tempo mi ha dato il distacco e la serenità necessari a capire.
Ora io credo sia stata una bizzarra sintesi di opposti a rapire il tuo cuore. C’era una specie di aggressività inesplosa nell’atteggiamento di Alex, il medesimo impulso che lo spingeva a corrodere i suoni, a storpiarli, a disilludere costantemente l’ascoltatore. Alex ispirava un senso di perfetta autosufficienza. Credo che l’ultima cosa che gli importasse fosse comunicare con l’ascoltatore. Non cercava il dialogo: il suo discorso era a senso unico e il senso era aggredire. Per difendersi, probabilmente. Perché tutta quella perfetta sicurezza poteva crollare come un castello di sabbia. Ora sono convinta che, nonostante le apparenze, Alex fosse molto più fragile e inquieto di te.
Non fu facile per me ammettere la sconfitta. Per convincere il mio cuore lo costrinsi a sanguinare in diretta.
Il giorno del concerto alle due del pomeriggio ero già dalle parti del Point Depot a spiare il vostro arrivo. Tra raffiche di vento e violenti scrosci d’acqua, insieme a pochi altri irriducibili, attesi fedelmente, disperata e felice al tempo stesso: guardavo i roadies scaricare e trasportare all’interno quei misteriosi bauli destinati a trasformarsi, a sprigionare ciò che mi avrebbe ridato la vita. Quando fummo confinati dietro le transenne capii che il momento era vicino.
Dalla prima auto nera scesero Alex, Brian e un tipo mai visto. Alex era pallido e magro come uno spettro - il look devastato di sempre - e fumava e discuteva nervosamente in francese con lo sconosciuto. Quasi mi sfiorarono passandomi davanti: parlavano di dettagli tecnici legati all’amplificazione e alla qualità del suono. Brian fu il solo a degnarci di qualche rapida stretta di mano. Alex non ci aveva nemmeno visti. Che da ore fossimo lì al freddo era un problema che non lo riguardava. Quando arrivasti tu insieme ad Eric e a Gordon Morris, sembrò che il cielo si spaccasse per lasciar cadere quanta più acqua possibile. L’autista ingranò la retro e vi condusse all’ingresso principale per depositarvi comodamente al riparo sotto la pensilina. Ci fu solo il tempo di capire, non certo di raggiungervi. Una frazione di secondo e il mio progetto di rivederti ancora da vicino e parlarti e toccarti un’altra volta era già svanito. Mesi di attesa spazzati via da un breve scroscio d’acqua gelata. E quel pomeriggio al freddo fra ansia e speranza: un sacrificio inutile che tu non avresti saputo mai.
Ma ancora non volevo cedere alla rassegnazione, così al termine del concerto provai ad appostarmi di nuovo sul retro del teatro: spiavo i roadies che impacchettavano e caricavano strumenti, cavi e amplificatori e non mi accorsi subito che, seduto in un angolo, con addosso un paio di jeans e una T-shirt nera, una lattina di Guinness in mano, c’era Alex. Aveva un’aria infelice, sembrava un bambino sofferente, impaziente. Sorseggiava la sua birra a intervalli regolari, con un gesto quasi automatico, e teneva sotto controllo i roadies come se stessero stivando un tesoro prezioso. A lavoro ultimato qualcuno fece calare la serranda e Alex scomparve. Tutti scomparvero. Sarebbe stato logico rassegnarsi e tornare a casa, era chiaro che dovevate essere scappati via da una qualche uscita di servizio. Eppure qualche ora dopo la fine del concerto io ero il solo fantasma ancora in circolazione dalle parti del Point Depot. Non riuscivo ad abbandonare quel santuario dove, nonostante tutto, ancora una volta ti avevo adorato in tutto il tuo splendore, in tutto il tuo irraggiungibile genio.
C’era un meraviglioso cielo stellato sopra di me mentre percorrevo senza ragione i vecchi binari della ferrovia incastrati nell’asfalto. All’improvviso mi trovai alle spalle un’auto che lampeggiava minacciosa: mi scostai per lasciarla passare e quando la vidi svoltare verso l’ingresso principale una voce segreta, irresistibile, mi spinse a seguirla. Non avevo niente da perdere, valeva la pena tentare. L’auto era lì buia e immobile, al volante un tizio insignificante che mi vide ma continuò a giocherellare con la radio lasciandomi procedere indisturbata verso la grande vetrata dell’arcata centrale. Chissà se Alex si accorse di me. Al di là della porta a vetri, nel deserto malinconico di una luce fioca, lui se ne stava lì da solo, seduto sulle scale, infagottato come un mendicante, una sacca di foggia militare ai piedi, la testa abbandonata contro il corrimano. Aveva la medesima espressione affranta di qualche ora prima. Quando vidi la tua lunga ombra nera avanzare, il mio cuore stava già battendo all’impazzata, come per un presentimento.
Io non troverò mai le parole per dire la grazia, la tenerezza, la delicatezza con cui la tua mano scese a posarsi sulla sua fronte, una carezza salda e dolcissima, un lungo silenzio immobile, la testa di Alex abbandonata dentro il tuo abbraccio. Non accadde altro, ma non avevo bisogno di vedere di più. Ti avevo perso completamente. Non c’era più un solo minuscolo spazio libero nel tuo cuore. Avrei tanto voluto scappare via, volatilizzarmi, diventare trasparente. Ma non potevo sottrarmi a quel dolore, a quella bellezza. Ero come ipnotizzata. Vi guardai calpestare la mia ombra mentre vi muovevate verso la macchina, Alex avvinghiato a te come all’unico sostegno della sua vita. Per te io non esistevo, non sarei mai esistita, non ero esistita mai.
Ero ancora lì impietrita a guardarvi raggiungere la macchina quando la porta si spalancò all’improvviso e Gordon Morris si rialzò il bavero della giacca fiutando il cielo con aria soddisfatta. Si accorse di me, mi salutò augurandomi la buonanotte. Era tutto finito.”
Non è stato un pomeriggio facile. Però ti accorgi con sollievo che il risveglio ti sta regalando la possibilità di tenere la testa rivolta verso la finestra. Vedi, il mondo continua là fuori, ogni cosa ha seguitato a procedere con regolarità. Persino la pioggia ha scelto di rimettersi all’opera, lenta e fedele attraverso le luci della sera. Non potresti desiderare suono più consolante di questo umido tramestio attorno al tuo davanzale.
A volte la notte sa rendere tutto così dolce, così accettabile.
“Ho portato qui le bambine” sussurra Deirdre al buio, entrando in punta di piedi. “Ho detto loro che hai la febbre e stai dormendo.”
Tesoro mio qualche volta sai fare la cosa giusta, pensi stringendola a te, inspirando l’umidità della sera dai suoi capelli.
“Resti a dormire qui?” chiedi quasi non osando sperare tanto.
Affondato nell’oscurità contempli il suo profilo luminoso mentre si sfila il cappotto con la grazia di un’indossatrice.
“Vieni che ti aiuto ad andare in bagno” sorride, e le sue esili braccia tenaci protese verso di te risplendono nella notte.
Ma ancora non volevo cedere alla rassegnazione, così al termine del concerto provai ad appostarmi di nuovo sul retro del teatro: spiavo i roadies che impacchettavano e caricavano strumenti, cavi e amplificatori e non mi accorsi subito che, seduto in un angolo, con addosso un paio di jeans e una T-shirt nera, una lattina di Guinness in mano, c’era Alex. Aveva un’aria infelice, sembrava un bambino sofferente, impaziente. Sorseggiava la sua birra a intervalli regolari, con un gesto quasi automatico, e teneva sotto controllo i roadies come se stessero stivando un tesoro prezioso. A lavoro ultimato qualcuno fece calare la serranda e Alex scomparve. Tutti scomparvero. Sarebbe stato logico rassegnarsi e tornare a casa, era chiaro che dovevate essere scappati via da una qualche uscita di servizio. Eppure qualche ora dopo la fine del concerto io ero il solo fantasma ancora in circolazione dalle parti del Point Depot. Non riuscivo ad abbandonare quel santuario dove, nonostante tutto, ancora una volta ti avevo adorato in tutto il tuo splendore, in tutto il tuo irraggiungibile genio.
C’era un meraviglioso cielo stellato sopra di me mentre percorrevo senza ragione i vecchi binari della ferrovia incastrati nell’asfalto. All’improvviso mi trovai alle spalle un’auto che lampeggiava minacciosa: mi scostai per lasciarla passare e quando la vidi svoltare verso l’ingresso principale una voce segreta, irresistibile, mi spinse a seguirla. Non avevo niente da perdere, valeva la pena tentare. L’auto era lì buia e immobile, al volante un tizio insignificante che mi vide ma continuò a giocherellare con la radio lasciandomi procedere indisturbata verso la grande vetrata dell’arcata centrale. Chissà se Alex si accorse di me. Al di là della porta a vetri, nel deserto malinconico di una luce fioca, lui se ne stava lì da solo, seduto sulle scale, infagottato come un mendicante, una sacca di foggia militare ai piedi, la testa abbandonata contro il corrimano. Aveva la medesima espressione affranta di qualche ora prima. Quando vidi la tua lunga ombra nera avanzare, il mio cuore stava già battendo all’impazzata, come per un presentimento.
Io non troverò mai le parole per dire la grazia, la tenerezza, la delicatezza con cui la tua mano scese a posarsi sulla sua fronte, una carezza salda e dolcissima, un lungo silenzio immobile, la testa di Alex abbandonata dentro il tuo abbraccio. Non accadde altro, ma non avevo bisogno di vedere di più. Ti avevo perso completamente. Non c’era più un solo minuscolo spazio libero nel tuo cuore. Avrei tanto voluto scappare via, volatilizzarmi, diventare trasparente. Ma non potevo sottrarmi a quel dolore, a quella bellezza. Ero come ipnotizzata. Vi guardai calpestare la mia ombra mentre vi muovevate verso la macchina, Alex avvinghiato a te come all’unico sostegno della sua vita. Per te io non esistevo, non sarei mai esistita, non ero esistita mai.
Ero ancora lì impietrita a guardarvi raggiungere la macchina quando la porta si spalancò all’improvviso e Gordon Morris si rialzò il bavero della giacca fiutando il cielo con aria soddisfatta. Si accorse di me, mi salutò augurandomi la buonanotte. Era tutto finito.”
Non è stato un pomeriggio facile. Però ti accorgi con sollievo che il risveglio ti sta regalando la possibilità di tenere la testa rivolta verso la finestra. Vedi, il mondo continua là fuori, ogni cosa ha seguitato a procedere con regolarità. Persino la pioggia ha scelto di rimettersi all’opera, lenta e fedele attraverso le luci della sera. Non potresti desiderare suono più consolante di questo umido tramestio attorno al tuo davanzale.
A volte la notte sa rendere tutto così dolce, così accettabile.
“Ho portato qui le bambine” sussurra Deirdre al buio, entrando in punta di piedi. “Ho detto loro che hai la febbre e stai dormendo.”
Tesoro mio qualche volta sai fare la cosa giusta, pensi stringendola a te, inspirando l’umidità della sera dai suoi capelli.
“Resti a dormire qui?” chiedi quasi non osando sperare tanto.
Affondato nell’oscurità contempli il suo profilo luminoso mentre si sfila il cappotto con la grazia di un’indossatrice.
“Vieni che ti aiuto ad andare in bagno” sorride, e le sue esili braccia tenaci protese verso di te risplendono nella notte.
(da "L'inutile guida" ed. Progetto Cultura, 2009 - dodicesima puntata)
martedì 24 novembre 2009
Autumn leaves
Io adoro le mattine violacee del tardo autunno perché mi ricollegano alla parte migliore della mia infanzia: l’equilibrio esitante della luce subito prima che sbocci il giorno, i fari delle auto, residuo superfluo dell’oscurità.
Essere l’ultimo nato in famiglia consente di sbirciare il mondo dalle retrovie, ed era da lì, da quell’osservatorio privilegiato – il sedile dell’auto che accompagnava a scuola prima mio fratello e poi me – che assorbivo le boscaglie nude a margine della strada e le popolavo dei miei mondi.
Dalla macchina, poi, sgusciavo nel castello accogliente della scuola, la mia vera casa, luminosa, linda, materna.
Adulti, si continua a diventare ciò che si è stati. Impossibile, però, alimentare il sogno.
Essere l’ultimo nato in famiglia consente di sbirciare il mondo dalle retrovie, ed era da lì, da quell’osservatorio privilegiato – il sedile dell’auto che accompagnava a scuola prima mio fratello e poi me – che assorbivo le boscaglie nude a margine della strada e le popolavo dei miei mondi.
Dalla macchina, poi, sgusciavo nel castello accogliente della scuola, la mia vera casa, luminosa, linda, materna.
Adulti, si continua a diventare ciò che si è stati. Impossibile, però, alimentare il sogno.
domenica 22 novembre 2009
Old wave - Ricevo e segnalo
WAYNE HUSSEY [The Mission – ex Sisters Of Mercy]
+ special guests: MILES HUNT & ERICA NOCKALLS [The Wonder Stuff]
Sabato 5 dicembre 2009
PRATO - EXENZIA
Via E. Sambo 10
www.exenzia.it – www.myspace.com/legothique
Domenica 6 dicembre 2009
MILANO - LIGERA
Via Padova 133
www.mi-decay.org
Ex membro dei Dead Or Alive e dei Sisters Of Mercy (di cui fu il principale compositore delle musiche dello storico “First & Last & Always”). WAYNE HUSSEY è meglio conosciuto per essere il cantante e chitarrista dei Mission, gruppo di punta della scena gothic-rock degli anni ottanta formatasi a Leeds nel 1986. Messi da parte i Mission (ufficialmente scioltisi nella primavera del 2008 con quattro date consecutive allo Sheperds Bush Empire di Londra), Wayne prosegue quindi la sua carriera solista pubblicando l’album “Bare” (ristampato proprio in questi giorni dalla Echozone Records / Sony Music) e girovagando per il mondo solo con la sua voce e la sua inseparabile chitarra. Nel corso di queste due date italiane di Wayne Hussey non solo sarà possibile riascoltare alcune delle hit che hanno reso popolari i Mission, ma anche b-side, cover di altri artisti (Depeche Mode, The Cure, Bowie, Radiohead, U2, Beach Boys…) e alcune canzoni nuove di zecca.
Siti ufficiali:
www.themissionuk.com
www.waynehussey.de
www.myspace.com/waynehussey
MILES HUNT ed ERICA NOCKALLS sono rispettivamente voce e violino dei Wonder Stuff, uno dei gruppi indie inglesi più apprezzati degli anni novanta, per via di quella sua strana commistione di pop, punk rock e musica folk che li poneva a metà strada tra i Waterboys e i Pop Will Eat Itself (tra le altre cose prima band di Miles Hunt). Miles ed Erica (unitasi ai Wonder Stuff solamente pochi anni fa) riproporranno in coppia (e anche insieme a Wayne Hussey) molti classici del repertorio dei Wonder Stuff, alcune cover e brani tratti dall’album “Catching More Than We Miss” (uscito a nome Miles Hunt ed Erica Nockalls).
Siti ufficiali:
www.thewonderstuff.com
www.myspace.com/theactualmileshunt
www.myspace.com/ericanockalls
+ special guests: MILES HUNT & ERICA NOCKALLS [The Wonder Stuff]
Sabato 5 dicembre 2009
PRATO - EXENZIA
Via E. Sambo 10
www.exenzia.it – www.myspace.com/legothique
Domenica 6 dicembre 2009
MILANO - LIGERA
Via Padova 133
www.mi-decay.org
Ex membro dei Dead Or Alive e dei Sisters Of Mercy (di cui fu il principale compositore delle musiche dello storico “First & Last & Always”). WAYNE HUSSEY è meglio conosciuto per essere il cantante e chitarrista dei Mission, gruppo di punta della scena gothic-rock degli anni ottanta formatasi a Leeds nel 1986. Messi da parte i Mission (ufficialmente scioltisi nella primavera del 2008 con quattro date consecutive allo Sheperds Bush Empire di Londra), Wayne prosegue quindi la sua carriera solista pubblicando l’album “Bare” (ristampato proprio in questi giorni dalla Echozone Records / Sony Music) e girovagando per il mondo solo con la sua voce e la sua inseparabile chitarra. Nel corso di queste due date italiane di Wayne Hussey non solo sarà possibile riascoltare alcune delle hit che hanno reso popolari i Mission, ma anche b-side, cover di altri artisti (Depeche Mode, The Cure, Bowie, Radiohead, U2, Beach Boys…) e alcune canzoni nuove di zecca.
Siti ufficiali:
www.themissionuk.com
www.waynehussey.de
www.myspace.com/waynehussey
MILES HUNT ed ERICA NOCKALLS sono rispettivamente voce e violino dei Wonder Stuff, uno dei gruppi indie inglesi più apprezzati degli anni novanta, per via di quella sua strana commistione di pop, punk rock e musica folk che li poneva a metà strada tra i Waterboys e i Pop Will Eat Itself (tra le altre cose prima band di Miles Hunt). Miles ed Erica (unitasi ai Wonder Stuff solamente pochi anni fa) riproporranno in coppia (e anche insieme a Wayne Hussey) molti classici del repertorio dei Wonder Stuff, alcune cover e brani tratti dall’album “Catching More Than We Miss” (uscito a nome Miles Hunt ed Erica Nockalls).
Siti ufficiali:
www.thewonderstuff.com
www.myspace.com/theactualmileshunt
www.myspace.com/ericanockalls
venerdì 20 novembre 2009
Capitolo 3 "Alex" - undicesima puntata
“…Io non troverò mai le parole per dire la grazia, la tenerezza, la delicatezza con cui la tua mano scese a posarsi sulla sua fronte, una carezza salda e dolcissima…”
Che cosa ho fatto di male, pensi aggrappandoti disperatamente alle lenzuola, provando a farti forza con un gomito, che cosa ho fatto di male, mio Dio, per meritare un castigo così terribile, una punizione che non augureresti nemmeno al tuo peggior nemico… Controllare l’ansia è il problema numero uno; come se la nausea fosse roba da niente. Tenere fisso lo sguardo davanti a sé, è questa la cosa da fare, sguardo fisso e respiri lunghi e controllati, è su questo che ti concentri mentre sei già in un bagno di sudore e la tua mano destra vaga ciecamente, alla disperata ricerca del telefono. Non c’è niente che tu possa fare senza aiuto, ora, niente che tu possa tentare prima che Deirdre ti abbia messo in bocca un paio di compresse. Inutile cercare di alzarsi: sai già che nel giro di pochi secondi ti ritroveresti a terra, trascinato nel gorgo del pavimento in un lago di vomito.
Inspiegabilmente, i passi di Deirdre sulle scale, invece di allentare l’ansia sembrano farla aumentare. Ecco tua moglie che si siede cauta sul letto e ti carezza delicatamente la fronte e la guancia sorridendo. Da qualche parte dentro di te, sai già che questo è il massimo della tenerezza che ti viene messo a disposizione e te lo stai bruciando nel giro di pochi secondi. Deirdre indossa il cappottino di lana verde melange che le hai regalato, un modello anni ’60 a vita alta con vistosi bottoni in legno, assolutamente ideale per il suo corpo da ragazzina. La punta di colore è perfetta per i suoi occhi, pensi con una sorta di sollievo, trovando conforto in quell’armonia di forme e colori.
Fuori è una domenica tetra e immobile: l’avevi intuito da quell’unico sguardo veloce alla finestra, non appena aperti gli occhi, subito prima che i quattro angoli del soffitto cominciassero a roteare lentamente attorno a te. Non sembra un attacco dei peggiori, niente di comparabile alla prima volta quando era come avere un’elica al posto della testa; certo le vertigini sono una minaccia odiosa con la quale non ti rassegni a convivere.
A un tratto il panico ti assale insieme ad una ondata violenta di nausea e sudore: e se queste fossero le avvisaglie di un attacco identico a quello che ha azzerato in una frazione di secondo qualsiasi capacità uditiva nel tuo orecchio sinistro? Se si trattasse della manifestazione superficiale di un problema sotterraneo che sta lavorando ai danni del tuo orecchio sano?
“Steve, se è questo il tuo modo di reagire…” Deirdre lascia deliberatamente la frase in sospeso per rimarcare la sua delusione nei tuoi confronti. Poi la senti togliersi il cappotto con un sospiro. È il suo modo di aiutarti, ormai hai imparato che non può fare più di questo. Non è mancanza d’amore o superficialità, è una sorta di analfabetismo della tenerezza, un linguaggio che conosce a malapena, che hai disperatamente tentato di insegnarle ma che non ha mai fatto suo. Ti sei abituato a far tesoro di ogni minima manifestazione d’affetto da parte di tua moglie perché sai che il poco che ti concede è tutto quello che ti può dare.
Il cuore ti si allaga di solidarietà per la figura ossuta e testarda che ti siede accanto; la vedi rimpicciolirsi e piegarsi contro lo sfondo di una storia familiare costruita sulle asprezze di una povertà rassegnata, quasi compiaciuta. Deirdre è seduta sul bordo del letto, la schiena curva e pensosa fasciata da una calda maglia color avorio. Allunghi una mano sulla sua spalla e gliela accarezzi con un massaggio lento, privo di forza; cerchi la sua comprensione, la sua complicità, mentre, una volta di più, rileggi la sua storia alla luce di quel sentimento ruvido e sbrigativo che deve aver forgiato la sua infanzia. Ammiri la sua determinazione ad affermare se stessa, le invidi la forza, la fiducia nelle proprie possibilità; sei addirittura orgoglioso delle sue conquiste. Ma la devozione che Deirdre continua a nutrire per chi l’ha cresciuta con sentimenti più vicini all’odio che all’amore sembra il frutto di una sottomissione perversa, inquietante, insospettabile nella donna energica e positiva che ama ridurre i problemi ai minimi termini.
È in momenti come questo che senti avvampare di nuovo la ribellione più vigorosa contro l’istituzione della famiglia che inocula condizionamenti incancellabili nel sangue di creature indifese. Ma forse è solo la tua anima malfatta a farti rifiutare la sacralità dei legami di sangue. È la tua anima riottosa ad evocare su di te la giusta punizione, a spingerti nel cono d’ombra della maledizione, dove non è più possibile riparare ai propri errori.
“Non dovresti startene qui da solo, Steve”
“In queste condizioni non posso muovermi, lo sai.”
“Ma non ti fa bene stare qui da solo, non fai che lavorare di fantasia, e pensi sempre al peggio”
“Non voglio che le bambine mi vedano così, sai bene che si spaventano.”
Con un braccio ti copri gli occhi e con l’altro attiri a te il corpo flessuoso di Deirdre. Cingere quella vita sottile contro di te ha un effetto benefico, anche se temi che lei stia già fremendo per alzarsi.
“Sai qual è il tuo problema, Steve?”
“Tu vedi un solo problema?”
“Il tuo problema” prosegue Deirdre, ignorando la tua provocazione “è che hai smesso di frequentare il carcere. Ho sempre saputo che era importante per te, ma ora capisco quanto. A volte ho la sensazione che fosse l’unico posto dove ti sentivi a tuo agio” conclude con una punta di tristezza. Senti finalmente la sua mano sulla tua.
“Io sto bene con te e le bambine” la stringi ancora più a te, desiderando averla sotto le lenzuola.
È a questo punto che lei si alza. C’era da aspettarselo. “Di solito quanto ci mettono quelle compresse a fare effetto?” domanda distrattamente guardando dalla finestra.
È il suo modo di amarti. Non ti prenderà mai sul serio, mai per un tempo più lungo di qualche minuto.
“Non so, credo che non servano a niente, in realtà…”
“Ma perché le prendi allora?”
È più facile crollare nel buio della propria solitudine, lasciarsi andare alla paura di sempre, acquattarsi e aspettare. Non serve rispondere. Tornerai a Didi quando avrai qualcosa da prendere e lei qualcosa da dare.
“Bacia le bambine per me e di’ loro che mi mancano” dici all’improvviso tirandoti il lenzuolo sugli occhi.
“Steve, non stai mica morendo!” esplode Didi nervosa. Senti quanto sia infastidita dal tuo malessere, no, non dalle vertigini, ma da quel tuo malessere profondo che non riesce o non vuole raggiungere; percepisci chiaramente quanto vorrebbe essere lontana da quella stanza e come invece si sforzi di trattenersi, sedendo ora all’altro angolo del letto. Facciamo tutti così quando siamo davanti ad un dolore che non possiamo affrontare, rifletti giustificandola. Ma c’è un’ondata di lacrime che preme, intanto, preme sul tuo cuore lottando contro l’avanzata insistente della nausea. Lasciami solo, Didi, lasciami solo, per l’amor di Dio.
“Steve, tu stai esagerando come sempre” conclude lei dopo un attimo di silenzio, rispondendo alla sua ineccepibile logica della linea retta, la logica della via più semplice.
“Io voglio continuare ad amare Julia e Chloe come le amo ora” dichiari improvvisamente al soffitto. “Non mi importa se un giorno mi odieranno: è un loro diritto odiarmi. Quello che conta è che il mio amore per loro non cambi mai.”
Didi si alza e si infila il cappotto.
“Steve, non so come tu possa sperare di sentirti meglio se te ne stai qui a fantasticare di cose assurde” sentenzia, approfittando della tua dichiarazione per sentirsi giustificata ad andarsene. Aggiunge seccamente che nel pomeriggio porterà le bambine da sua madre; se non pioverà usciranno per una passeggiata in St. Stephen’s Green.
(da "L'inutile guida" ed. Progetto Cultura, 2009 - undicesima puntata)
giovedì 19 novembre 2009
Ma la crisi non era finita?
Ricevo via e-mail da un amico il messaggio che riporto qui di seguito integralmente:
"AGILE ex EUTELIA
COME LICENZIARE 9000 PERSONE SENZA CHE NESSUNO SE NE ACCORGA !!!
E' iniziato il licenziamento dei primi 1200 lavoratori di OLIVETTI-GETRONICS-BULL-EUTELIA-NOICOM-EDISONTEL TUTTI CONFLUITI IN: AGILE s.r.l. ora Gruppo Omega
Agile ex Eutelia è stata consegnata a professionisti del FALLIMENTO.
Agile ex Eutelia è stata svuotata di ogni bene mobile ed immobile.
Agile ex Eutelia è stata condotta con maestria alla perdita di commesse e clienti.
Il gruppo Omega continua la sua opera di killer di aziende in crisi , l'ultima è Phonemedia 6600 dipendenti che subirà a breve la stessa sorte.
Siamo una realtà di quasi 10.000 dipendenti e considerando che ognuno di noi ha una famiglia, le persone coinvolte sono circa 40.000 eppure nessuno parla di noi.
Abbiamo bisogno di visibilità Mediatica, malgrado le nostre manifestazioni nelle maggiori città italiane ( Roma - Siena_Montepaschi -- Milano -- Torino -- Ivrea -- Bari -- Napoli - Arezzo - ) e che alcuni di noi sono saliti sui TETTI, altri si sono INCATENATI a Roma in piazza Barberini, nessun Giornale a tiratura NAZIONALE si è occupato di noi ad eccezione dei TG REGIONALI e GIORNALI LOCALI.
NON siamo mai stati nominati in nessun TELEGIORNALE NAZIONALE perché la parola d'ordine è che se non siamo visibili all'opinione pubblica il PROBLEMA NON ESISTE. ==> Dal 4-Novembre-2009 le nostre principali sedi sono PRESIDIATE con assemblee permanenti <== Se sei solidale con noi INOLTRA QUESTO DOCUMENTO ad almeno 10 amici nei prossimi 30 minuti, non ti costa nulla , ma avrai il ringraziamento di tutti i lavoratori e le Lavoratrici di Agile ex Eutelia che da mesi sono senza stipendio * *Altrimenti questa azienda morirà * Le Lavoratrici e i Lavoratori di Agile s.r.l. -- ex Eutelia"
Essendo completamente all'oscuro della vicenda ho condotto una breve indagine sul web e sono saltate fuori notizie come questa.
Lavoratori, sveglia che è tardi.
"AGILE ex EUTELIA
COME LICENZIARE 9000 PERSONE SENZA CHE NESSUNO SE NE ACCORGA !!!
E' iniziato il licenziamento dei primi 1200 lavoratori di OLIVETTI-GETRONICS-BULL-EUTELIA-NOICOM-EDISONTEL TUTTI CONFLUITI IN: AGILE s.r.l. ora Gruppo Omega
Agile ex Eutelia è stata consegnata a professionisti del FALLIMENTO.
Agile ex Eutelia è stata svuotata di ogni bene mobile ed immobile.
Agile ex Eutelia è stata condotta con maestria alla perdita di commesse e clienti.
Il gruppo Omega continua la sua opera di killer di aziende in crisi , l'ultima è Phonemedia 6600 dipendenti che subirà a breve la stessa sorte.
Siamo una realtà di quasi 10.000 dipendenti e considerando che ognuno di noi ha una famiglia, le persone coinvolte sono circa 40.000 eppure nessuno parla di noi.
Abbiamo bisogno di visibilità Mediatica, malgrado le nostre manifestazioni nelle maggiori città italiane ( Roma - Siena_Montepaschi -- Milano -- Torino -- Ivrea -- Bari -- Napoli - Arezzo - ) e che alcuni di noi sono saliti sui TETTI, altri si sono INCATENATI a Roma in piazza Barberini, nessun Giornale a tiratura NAZIONALE si è occupato di noi ad eccezione dei TG REGIONALI e GIORNALI LOCALI.
NON siamo mai stati nominati in nessun TELEGIORNALE NAZIONALE perché la parola d'ordine è che se non siamo visibili all'opinione pubblica il PROBLEMA NON ESISTE. ==> Dal 4-Novembre-2009 le nostre principali sedi sono PRESIDIATE con assemblee permanenti <== Se sei solidale con noi INOLTRA QUESTO DOCUMENTO ad almeno 10 amici nei prossimi 30 minuti, non ti costa nulla , ma avrai il ringraziamento di tutti i lavoratori e le Lavoratrici di Agile ex Eutelia che da mesi sono senza stipendio * *Altrimenti questa azienda morirà * Le Lavoratrici e i Lavoratori di Agile s.r.l. -- ex Eutelia"
*GRAZIE* "
Essendo completamente all'oscuro della vicenda ho condotto una breve indagine sul web e sono saltate fuori notizie come questa.
Lavoratori, sveglia che è tardi.
mercoledì 18 novembre 2009
Fame nel mondo: who cares?
Fallimento vertice Fao. Un miliardo e venti milioni di affamati nel mondo. A qualcuno interessa? No, vero?
lunedì 16 novembre 2009
Francesco Piemontesi al Salone Estense di Varese
Programma forse un po’ troppo nutrito quello scelto dal giovane pianista svizzero, pupillo di Martha Argerich: Haydn, Schubert, Debussy e Schumann. L’impressione generale è stata quella di uno chef intenzionato a dimostrare di eccellere in ogni tipo di pietanza, col risultato che gli ingredienti sono finiti un po’ a casaccio in tutti i piatti.
Grande tecnica, indubbiamente, ma poca profondità. Approccio scolastico per Haydn (dove non abbiamo percepito alcuna avvisaglia Sturm und Drang). Nessuna sensibilità viennese per Schubert. Assenza di colori per i preludi di Debussy, affrontati con un impeto poco opportuno. La seconda parte del concerto, interamente dedicata a Schumann (Fantasia op.17 e Toccata op.7) si è lasciata fruire come la prova d’esame di un bravo allievo di conservatorio.
Per il momento, di Francesco Piemontesi (nato 26 anni fa a Locarno) mi sento di dire che è un bravo pianista. La musica, però, sappiamo benissimo che sta altrove.
Grande tecnica, indubbiamente, ma poca profondità. Approccio scolastico per Haydn (dove non abbiamo percepito alcuna avvisaglia Sturm und Drang). Nessuna sensibilità viennese per Schubert. Assenza di colori per i preludi di Debussy, affrontati con un impeto poco opportuno. La seconda parte del concerto, interamente dedicata a Schumann (Fantasia op.17 e Toccata op.7) si è lasciata fruire come la prova d’esame di un bravo allievo di conservatorio.
Per il momento, di Francesco Piemontesi (nato 26 anni fa a Locarno) mi sento di dire che è un bravo pianista. La musica, però, sappiamo benissimo che sta altrove.
sabato 14 novembre 2009
Gita di compleanno
Per festeggiare il primo anno di vita di questo modestissimo blogghino porto la creatura a fare una gita a Fidenza a fare due chiacchiere con Luca Frazzi.
Comunque non immaginavo che avrei trascinato questo blog fin qui e la tentazione di chiudere è forte.
Comunque non immaginavo che avrei trascinato questo blog fin qui e la tentazione di chiudere è forte.
venerdì 13 novembre 2009
Capitolo 2 "Coincidenze" - decima puntata
Io mi sorprendo della mia saggezza, della mia serenità, addirittura, quando gli dico: “Non avere fretta” e poi, davanti a quegli occhi smarriti, provo solo l’impulso di stringerlo di nuovo a me per offrirgli tutto il conforto di cui sono capace.
Mi invade all’improvviso la sensazione insperata, dolcissima, di non essere più solo. “Tu sei mai stato felice con qualcuno?” mi viene da chiedere a un tratto.
“Credo di non essere stato felice mai, in nessun caso.”
“Nemmeno io” concludo con una sorta di sollievo, come se mi fossi liberato di una antica costrizione.
Non ho ancora cominciato a misurare la realtà da questa nuova prospettiva che Alex si è già staccato da me. “Ho bisogno di starmene un po’ da solo” dice sgusciando via.
Una decisione improvvisa che mi lascia senza parole. Sono solo pochi minuti che si è allontanato e provo già la fastidiosa sensazione di essere stato privato di qualcosa di vitale. Non ho la minima idea di quello che mi aspetta, non so assolutamente cosa potrà significare, in concreto, quello che io e Alex ci siamo appena detti, e tuttavia non posso fare a meno di godere il nettare delizioso che mi è stato miracolosamente versato nelle vene. Rassegnato e felice, sospiro e mi abbandono ancora contro la vetrina della libreria, e chiudo gli occhi sulla mia beatitudine, sui miei sogni, sulla mia eccitazione. Sotto la camicia sento la sua mano calda, nervosa, che mi stringe avida un fianco, e poi comincia a viaggiare leggera. Non è assurdo che io stia già azzardando fantasie così dettagliate? E se ne restassi deluso?
Improvvisamente, ogni cosa mi appare sotto una luce diversa: mi sento come folgorato da una saggezza benevola che proietta un’indelebile linea di confine nella mia vita.
Ci sono immagini che mi attraversano il cuore all’impazzata.
Rivedo Alex sdraiato sul pavimento di casa mia la mattina dell’ultima vigilia di Natale, tra lattine e bottiglie vuote. Sento le mie risate, quelle ancora più sguaiate degli altri. Per tutta la notte la relazione tra Alex e l’agente immobiliare è stata il principale argomento di conversazione e oggetto di battutacce impietose. Alex ha assorbito in silenzio le peggiori volgarità una sigaretta dietro l’altra, un bicchiere dietro l’altro.
Una mattina buia e grigia. Una leggera pioggia gelata. Tutti si sono dileguati, mentre io e Alex continuiamo a sonnecchiare sul pavimento. Di lì a due giorni Corinne entrerà nelle nostre vite e noi dormiamo incoscienti. A giorno fatto mi viene voglia di darmi una sistemata per farmi un giro in città e scegliere un buon posto dove ubriacarmi. Vista la situazione, Alex potrebbe essere il mio compagno di sbronze ideale.
“Ma tu non te ne torni a casa dai tuoi al mare?”
“Stai scherzando? Dio, se penso a quell’odore di carne arrostita…”
“Voi cattolici ci tenete a queste cose, no? Non sei tu quello che ha quattro sorelle?”
“Siamo come estranei. Lo stesso con mio padre. È come se non esistessi. Non si accorgeranno nemmeno della mia assenza, fidati.”
“Cristo, non c’è giorno dell’anno che odio di più…mi fa sempre stare da schifo” Alex che si infila una sigaretta spenta fra le labbra.
“Penso sempre a come deve essersi sentita mia madre… te l’immagini? Passare la vigilia di Natale a partorire un figlio che non avresti mai voluto… cazzo, deve essere stato un incubo…”
“Ma non puoi pensare certe cose il giorno del tuo compleanno, cazzo, uno deve festeggiare, lo vedi cosa succede a mettersi con le donne sposate? Che ti mollano da solo nei momenti peggiori, ecco cosa succede… ti trovo subito dell’acido da sballo, fidati…”
Alex che si rimette in piedi, incerto, e cerca di accendersi la sigaretta.
“Senti, lasciami andare a casa… ho un bel po’ di roba da vomitare, credo.”
Io lo chiamo più volte durante il giorno. Lui non risponde mai. Io passo la notte di Natale da solo a bere e ad ascoltare per tre volte consecutive la Boheme con Maria Callas piangendo di commozione.
Mi invade all’improvviso la sensazione insperata, dolcissima, di non essere più solo. “Tu sei mai stato felice con qualcuno?” mi viene da chiedere a un tratto.
“Credo di non essere stato felice mai, in nessun caso.”
“Nemmeno io” concludo con una sorta di sollievo, come se mi fossi liberato di una antica costrizione.
Non ho ancora cominciato a misurare la realtà da questa nuova prospettiva che Alex si è già staccato da me. “Ho bisogno di starmene un po’ da solo” dice sgusciando via.
Una decisione improvvisa che mi lascia senza parole. Sono solo pochi minuti che si è allontanato e provo già la fastidiosa sensazione di essere stato privato di qualcosa di vitale. Non ho la minima idea di quello che mi aspetta, non so assolutamente cosa potrà significare, in concreto, quello che io e Alex ci siamo appena detti, e tuttavia non posso fare a meno di godere il nettare delizioso che mi è stato miracolosamente versato nelle vene. Rassegnato e felice, sospiro e mi abbandono ancora contro la vetrina della libreria, e chiudo gli occhi sulla mia beatitudine, sui miei sogni, sulla mia eccitazione. Sotto la camicia sento la sua mano calda, nervosa, che mi stringe avida un fianco, e poi comincia a viaggiare leggera. Non è assurdo che io stia già azzardando fantasie così dettagliate? E se ne restassi deluso?
Improvvisamente, ogni cosa mi appare sotto una luce diversa: mi sento come folgorato da una saggezza benevola che proietta un’indelebile linea di confine nella mia vita.
Ci sono immagini che mi attraversano il cuore all’impazzata.
Rivedo Alex sdraiato sul pavimento di casa mia la mattina dell’ultima vigilia di Natale, tra lattine e bottiglie vuote. Sento le mie risate, quelle ancora più sguaiate degli altri. Per tutta la notte la relazione tra Alex e l’agente immobiliare è stata il principale argomento di conversazione e oggetto di battutacce impietose. Alex ha assorbito in silenzio le peggiori volgarità una sigaretta dietro l’altra, un bicchiere dietro l’altro.
Una mattina buia e grigia. Una leggera pioggia gelata. Tutti si sono dileguati, mentre io e Alex continuiamo a sonnecchiare sul pavimento. Di lì a due giorni Corinne entrerà nelle nostre vite e noi dormiamo incoscienti. A giorno fatto mi viene voglia di darmi una sistemata per farmi un giro in città e scegliere un buon posto dove ubriacarmi. Vista la situazione, Alex potrebbe essere il mio compagno di sbronze ideale.
“Ma tu non te ne torni a casa dai tuoi al mare?”
“Stai scherzando? Dio, se penso a quell’odore di carne arrostita…”
“Voi cattolici ci tenete a queste cose, no? Non sei tu quello che ha quattro sorelle?”
“Siamo come estranei. Lo stesso con mio padre. È come se non esistessi. Non si accorgeranno nemmeno della mia assenza, fidati.”
“Cristo, non c’è giorno dell’anno che odio di più…mi fa sempre stare da schifo” Alex che si infila una sigaretta spenta fra le labbra.
“Penso sempre a come deve essersi sentita mia madre… te l’immagini? Passare la vigilia di Natale a partorire un figlio che non avresti mai voluto… cazzo, deve essere stato un incubo…”
“Ma non puoi pensare certe cose il giorno del tuo compleanno, cazzo, uno deve festeggiare, lo vedi cosa succede a mettersi con le donne sposate? Che ti mollano da solo nei momenti peggiori, ecco cosa succede… ti trovo subito dell’acido da sballo, fidati…”
Alex che si rimette in piedi, incerto, e cerca di accendersi la sigaretta.
“Senti, lasciami andare a casa… ho un bel po’ di roba da vomitare, credo.”
Io lo chiamo più volte durante il giorno. Lui non risponde mai. Io passo la notte di Natale da solo a bere e ad ascoltare per tre volte consecutive la Boheme con Maria Callas piangendo di commozione.
Quando Alex ritorna, raccogliendosi con un elastico i ricci inumiditi, mi sembra di avere la febbre. Quello che penso è che non avrebbe mai dovuto lasciarmi qui da solo in un momento del genere, ma non ho il coraggio di dirglielo.
Lui siede a gambe incrociate accanto a me, evitando accuratamente di incontrare il mio sguardo.
“Se dura fino a domani ci sono buone probabilità che duri per un bel po’”mi viene da dire a un tratto, per una ispirazione improvvisa, indovinando i suoi pensieri.
“Che strana teoria” mormora lui con un sospiro, tornando ad appoggiarsi alla vetrina. “Domani saremo in Brasile.”
Sono quasi le cinque di mattina e io non riesco a immaginare quando, come e dove sarà domani.
“Lascia stare, smetti di pensarci, Alex. Domani saremo in un posto dove non siamo mai stati, lascia che le cose succedano…”
Lui sogghigna cinico a occhi chiusi. “Dunque quello che deve succedere succederà in Brasile…È strano, non trovi? Attraversare l’oceano in attesa di una risposta, sbarcare in una terra sconosciuta e scoprire cosa dovrà accadere.”
“No, non è strano. È piuttosto logico, anzi. Pensa a chi in Brasile c’è arrivato per primo, pensa ai navigatori del quindicesimo secolo - stiamo parlando di più di cinquecento anni fa - io non so se fossero geni o pazzi furiosi, mi chiedo se fosse il coraggio o la disperazione a spingerli… ma pensa a come dovevano sentirsi quei capitani cui erano affidate centinaia di vite, addirittura le sorti di una nazione, in un certo senso, e potevano contare solo sull’aiuto delle stelle e sul proprio intuito e non avevano la minima idea di ciò a cui sarebbero andati incontro… Si mettevano in mare senza nemmeno sapere se sarebbero ritornati, semplicemente abbracciavano l’oceano e il proprio destino…”
Alex volta leggermente la testa verso di me e finalmente sorride “È bello starti a sentire, Steve. Non ho mai conosciuto nessuno come te. Hai sempre un modo così originale di vedere le cose e dire quello che pensi.”
Gli occupanti dei sacchi a pelo ordinatamente disposti al piano di sotto stanno cominciando a sbucare dai loro involucri. Improvvisamente riusciamo a percepire il rumore confortante delle porte automatiche. La vita ritorna.
Forse dovremmo muoverci in cerca del nostro volo. Gordon e gli altri saranno qui a momenti.
Mentre ci rimettiamo in piedi, le ossa a pezzi, i nostri sguardi si incontrano. Suppongo che sarebbe il momento giusto per provare a baciarlo ma non trovo il coraggio.
In lontananza riusciamo a distinguere le sagome dei due ecologisti belgi che si avviano all’imbarco verso le Azzorre. Provo all’improvviso uno smarrimento e una malinconia senza fine. Un inspiegabile senso di abbandono. Alex li segue con lo sguardo e il suo viso sembra distendersi. “Spero che facciano un buon viaggio e una buona vacanza… Che strano: non li vedremo mai più, ci pensi?”
Con estrema naturalezza il mio braccio destro scivola intorno alle sue spalle: sono curioso di indagare il suo sguardo, li voglio tutti per me questi occhi luminosi. I due belgi se ne sono andati, ma tu sei qui, tu sei qui con me, penso con indicibile sollievo. Quasi rispondendo ad un messaggio in codice la sua mano intreccia la mia.
“Lo sai, Steve, io non ho mai avuto paura di volare.”
“Nemmeno io, Alex.”
(da "L'inutile guida" ed. Progetto Cultura, 2009 - decima puntata)
mercoledì 11 novembre 2009
Lignes de fuite - 4 (Mervyn Peake)
"All artists are inspired by beauty, but not all artists see beauty in the same places or in the same way. For Mervyn Peake, it was the line that inspired him, rather than colour, tone, or texture. [...]
This ability not merely to see but also to render on paper the subtlety of the outline of the human figure made him acutely aware of how tiny a difference separates beauty from ugliness.[...]
Seeing how rarely the human face or figure attains perfection gave Peake the potential to be a caricaturist, or a cynic; instead he lovingly played with the borderline and created grotesques. That he was quite aware of this is illustrated by his comment on Fuchsia: She was gauche in movement and in a sense, ugly of face, but with how small a twist might she not suddenly have become beautiful (from Titus Groan)"
(G.Peter Winnington in "Lines of Flight - Mervyn Peake, The Illustrated Work")
This ability not merely to see but also to render on paper the subtlety of the outline of the human figure made him acutely aware of how tiny a difference separates beauty from ugliness.[...]
Seeing how rarely the human face or figure attains perfection gave Peake the potential to be a caricaturist, or a cynic; instead he lovingly played with the borderline and created grotesques. That he was quite aware of this is illustrated by his comment on Fuchsia: She was gauche in movement and in a sense, ugly of face, but with how small a twist might she not suddenly have become beautiful (from Titus Groan)"
(G.Peter Winnington in "Lines of Flight - Mervyn Peake, The Illustrated Work")
lunedì 9 novembre 2009
Der Mauerfall
"Me n'ero andata perché non volevo essere a casa quando tutto si sarebbe dissolto: la mia Berlino Est e la nostra Berlino Ovest; avevo temuto di dissolvermi anch'io, di sparire. Avevo preferito farlo altrove. Essere straniera in Svizzera mi sembrava più normale che diventarlo in due città che non potevano continuare a essere ciò che erano state, e che tanto meno sarebbero potute tornare a essere una città sola, la Berlino che fu - sarebbero piuttosto diventate qualcosa di nuovo, una città che nessuno conosceva e che forse, una volta ultimata, mi sarebbe anche potuta piacere. In quel momento comunque no, non all'inizio di tutto; un inizio che significava caos, demolizioni, speculazioni, incertezza. Lo percepivo anche da lontano: la maggior parte di noi aborigeni, a prescindere che fossimo berlinesi dell'Est, dell'Ovest o berlinesi doppi, si sentiva in quei mesi difficili come millepiedi che fino ad allora avevano vissuto sotto le pietre di un giardino abbandonato. Poi era arrivata una mano gigantesca e aveva sollevato quelle pietre. E allora quegli esserini avevano preso a vagare impauriti o a fingersi morti - desideravano soltanto poter avere indietro la loro patria pietrosa; l'oscurità, la pace, tutto ciò a cui appunto erano abituati."
(Katja Lange-Müller, "L'agnello cattivo", Neri Pozza 2008)
venerdì 6 novembre 2009
Capitolo 2 "Coincidenze" - nona puntata
Avevo sperato assurdamente che almeno un bar sarebbe rimasto in vita. L’aeroporto si è ridotto ad una specie di deserto freddo e asettico, popolato da pochi spettri affranti. Brancoliamo qui dentro da più di dodici ore: ormai è chiaro che non partiremo neanche stanotte. È con un certo sollievo, lo ammetto, che vedo Gordon avanzare dal fondo del corridoio verso di me.
“Partiamo domani mattina alle 6.35” annuncia con evidente soddisfazione, prima di spiegarmi che la compagnia aerea ci offre una notte in un hotel della città. Faccio un rapido calcolo.
“Gordon, ti rendi conto che ore sono?”
Gordon respira profondamente e, sforzandosi di essere gentile, chiede: “Qual è il problema, Steve?”
“Partiamo domani mattina alle 6.35” annuncia con evidente soddisfazione, prima di spiegarmi che la compagnia aerea ci offre una notte in un hotel della città. Faccio un rapido calcolo.
“Gordon, ti rendi conto che ore sono?”
Gordon respira profondamente e, sforzandosi di essere gentile, chiede: “Qual è il problema, Steve?”
“Il problema è che tu non dovresti nemmeno farmi una proposta del genere. Non saremo in quel fottutissimo hotel prima delle 2 e alle 5 dovremo essere pronti a saltare sull’autobus come soldatini. Non posso nemmeno cambiarmi questi vestiti puzzolenti perché quei bastardi si sono ingoiati il nostro bagaglio...”
Gordon mi interrompe categorico e si prende il gusto di scandirmi in faccia: “Steve-fai-quel-cazzo-che-ti-pare.” Poi estrae una nuova carta di imbarco e me la lancia addosso ordinando: “Alle 5.45 dove c’è scritto lì. Ti auguro buon riposo.”
Gordon mi interrompe categorico e si prende il gusto di scandirmi in faccia: “Steve-fai-quel-cazzo-che-ti-pare.” Poi estrae una nuova carta di imbarco e me la lancia addosso ordinando: “Alle 5.45 dove c’è scritto lì. Ti auguro buon riposo.”
Ricomincio a vagare come un recluso su e giù per scale, corridoi e sale d’attesa. Esco a respirare la notte ma l’aria ha un odore pessimo di desolazione e il pensiero ossessivo di Corinne mi attanaglia di nuovo. La sua lettera d’addio resta un aperto atto d’accusa nei miei confronti: come Orfeo tu non hai avuto la forza di salvarmi, dice. Credeva nel potere della mia arte e io l’ho delusa, la mia arte non le è servita. A chi può servire la mia arte? Non è ridicolo e assurdo tutto questo? Non so fare altro che quello che faccio e quello che faccio è assolutamente inutile, se non dannoso.
È una sorpresa distinguere Alex seduto per terra laggiù in fondo, la fronte contro la vetrata, le braccia strette attorno alle ginocchia.
Sembra un bambino che spia dalla finestra il ritorno di qualcuno che gli tenga compagnia. Mi avvicino sentendomi invadere da una inspiegabile promessa di conforto e calore e, quando lo raggiungo, provo lo stravagante impulso di mettergli le mani sulle spalle. Ma conosco l’imprevedibile suscettibilità di Alex e mi trattengo.
“Hai visto Gordon?” gli chiedo.
Lui solleva la testa verso di me con una smorfia di rassegnazione che dice tutto. Restiamo per qualche minuto in silenzio ad osservare l’immobilità nera di là dall’immensa vetrata, poi decidiamo di riprendere insieme il vagabondaggio notturno.
Ormai abbiamo imparato a memoria l’aeroporto intero, abbiamo esaminato ogni singola merce esposta al buio dietro le grate dei negozi chiusi e sappiamo quali sono le toilettes da evitare. Alla fine, distrutti, ci sediamo a terra, le spalle contro la vetrina della libreria. I nostri anfibi si toccano, credo che abbiamo l’aria di due disperati in fuga.
“A cosa stai pensando?” chiedo a un tratto per inerzia.
Alex sogghigna e volta la faccia verso il bar deserto.
“Se è una cosa divertente voglio saperla” insisto io, accontentandomi di qualsiasi briciola di conversazione.
“No, divertente non direi” e il sorriso si spegne e lo sguardo resta fisso ai tavolini scheletrici del bar.
“Vorrei soltanto che si facesse giorno” proseguo io, scavalcando impietosamente la malinconia di Alex, con l’unico desiderio di trovarmi sulla pista di decollo in un deserto di erba bruciata.
Mi chiedo quanto a lungo riuscirò a sopportare il silenzio irreale di questa enorme cella frigorifera.
“Fa un freddo insopportabile” dice finalmente lui, come risvegliandosi, e sollevandosi un poco. Mi guarda. Poi appoggia la testa sulla mia spalla e si fa praticamente abbracciare. Il mio è un gesto semplice, perfettamente naturale, ed è il sintomo di una complicità esclusiva, rifletto con orgoglio.
Restiamo così a lungo, in silenzio, io che gli strofino lentamente un braccio, come per dargli calore, e lui che con un dito percorre il mio ginocchio, quasi per indovinarne i minimi dettagli attraverso i jeans. Mi sento lusingato da questa richiesta di aiuto da parte di Alex. Ancora una volta sono l’unico testimone di un suo cedimento e ne sono fiero.
Provo una sensazione bizzarra e vivissima: mi sento come se stessi percorrendo nella realtà una strada conosciuta precedentemente solo in sogno.
“Ti ricordi il provino?” domanda Alex rianimandosi all’improvviso. È stato un anno fa, più o meno, e ricordo tutto perfettamente.
“Tu credi alle coincidenze?” continua lui, ancora concentrato sul mio ginocchio sinistro.
Ho visto spesso Alex ubriaco. Ai tempi della sua relazione con la tipa dell’agenzia immobiliare aveva preso l’abitudine di nascondersi in certi locali assurdi a stordirsi di erba e vino e toccava sempre a me e Corinne andare a stanarlo. Ho visto Alex vomitare fino a sfinirsi e poi rientrare nel bar e ricominciare a bere, l’ho visto difendere contro ogni logica la propria solitudine. Sono così abituato alla sua resistenza orgogliosa che mi riesce difficile credere a questo smarrimento, a questa voce insolita e spezzata che mi chiede ancora, con insistenza infantile, se credo alle coincidenze.
“Non lo so, non ci ho mai pensato…”
La mia risposta sembra deluderlo moltissimo. Si stacca da me e si abbraccia le ginocchia contro il petto. Devo averlo ferito terribilmente.
“Io invece ci sto pensando da parecchio” riprende con la voce guastata dall’amarezza, con l’aria di uno che vuole comunque arrivare in fondo. “Il modo in cui ci siamo conosciuti, il fatto che fossimo tutti e due a Seattle, in quel preciso momento quando a te è successo quel casino col tuo chitarrista e quando io sono rimasto improvvisamente senza lavoro… e di come io ho saputo per caso che stavi cercando un chitarrista… sì, lo so, dal tuo punto di vista tu potresti dire che tutto avviene per caso e che se non avessi trovato me avresti di sicuro trovato qualcun altro e dal tuo punto di vista io potrei essere solo il tipo che ti ha rubato la ragazza e l’ha fatta scappare, insomma, dal tuo punto di vista…”
“Che cazzo stai dicendo?” lo interrompo bruscamente, irritato da quella sua rozza intrusione nel mio punto di vista.
Lui distende le gambe e si concentra sulle stringhe degli anfibi per trovare il coraggio di proseguire. “Voglio dire… Quando sono arrivato lì e ho parlato con te e poi abbiamo iniziato a provare, la sola cosa a cui pensavo era voglio avere questo lavoro, lo volevo con tutte le mie forze, e ho sentito chiaramente che la mia vita sarebbe stata inutile se non avessi potuto suonare con te… Nel momento in cui mi hai chiesto quale canzone dei Velvet Underground avrei scelto per una cover, non ho nemmeno dovuto rifletterci.”
Tutti i chitarristi che avevamo esaminato in precedenza erano caduti dalle nuvole a quella domanda e nessuno mi aveva fornito la risposta che desideravo, a differenza di Alex che invece sembrava avermi letto nel pensiero.
“Per qualche strana ragione avevo passato la notte ad ascoltare il disco della banana” continua intanto Alex. “All Tomorrow Parties è in assoluto il pezzo che preferisco, ho sempre avuto in mente di spalmarla di chitarre distorte, il suono più acido che si sia mai sentito, e tu hai detto finalmente! e allora ho capito che se non avessi potuto lavorare con te niente avrebbe avuto più senso nella mia vita.”
Non conosco un chitarrista più geniale di Alex. Con nessuno ho mai avuto un’intesa più immediata.
”Dici davvero?” Si volta di scatto a scrutarmi, gli occhi appuntiti dall’ansia.
“Non capisco dove vuoi arrivare, Alex.”
“La verità, vedi” prosegue lui torcendosi nervosamente una mano e abbandonando i miei occhi “la verità è che quando suoniamo assieme, io provo una sensazione stranissima… Non mi è mai capitato niente di simile. È qualcosa di cui non potrei più fare a meno…”
La mia mano si deposita sulla sua spalla. Ciò che vorrei trasmettergli è gratitudine, fondamentalmente.
“…è come se ci fosse qualcosa che ci unisce nel profondo, come se ci fossimo conosciuti in una vita precedente” sta confessando ancora lui, lo sguardo teso altrove. “È un’intesa così assoluta, così segreta, è esattamente come se stessimo facendo l’amore”.
Vedo una porzione di nubi nere scivolare lentamente nel mio cielo liberando uno spiraglio di azzurro, di aria nuova, di speranza.
Quello che provo non ha niente a che vedere con la felicità, suppongo, ma è qualcosa che non vorrei mai smettere di provare: è una specie di dolcissimo dolore, una sorta di languore eccitante che parte dallo stomaco e mi scalda le vene e comincia subito a consumarmi come una fiamma.
“Ci sono momenti” prosegue lui con la voce spezzata dentro il mio abbraccio “ci sono momenti quando sento questa specie di corrente fra me e te, e la sento così forte, ed è quasi una sensazione fisica e mi sembra che potrei ammazzare chiunque si permettesse di mettersi di mezzo…”
Le sue mani, bianche e scarne, stanno tremando in modo evidente. Gliele stringo istintivamente fra le mie e la sua chioma disordinata si rovescia su quell’intreccio in una supplica di perdono, perdono, perdono… Affondo le dita in quei morbidi serpenti semiossigenati, e mi sorprendo di come le mie mani giochino con assoluta naturalezza, totalmente disinibite, quasi non aspettassero altro.
Infine lui scoperchia uno sguardo desolato: “Ho rovinato tutto, vero?”
Intermezzo pubblicitario
Luca Frazzi è così gentile da aver invitato me e la creatura a fare un giro dalle sue parti. Meno male che mi sono comprata il volumone di Simon Reynolds sul post-punk. Adesso sotto a studiare che se Luca mi interroga...
mercoledì 4 novembre 2009
Lignes de fuite -3 (La Maison d'Ailleurs)
Restituire a parole il senso dell'altrove che si sperimenta alla Maison d'Ailleurs è assolutamente impossibile. Soprattutto quando, dopo aver visitato l'esposizione temporanea collocata nell'edificio principale, attraverso una passerella vetrata, ci si trasferisce altrove, appunto. Per esempio nell'Espace Jules Verne.
Io poi quando vedo cose di questo genere
mi commuovo e scivolo in un altrove da cui poi è difficile farmi ritornare.
Ma mi rendo conto che qualcuno potrebbe provare le stesse emozioni davanti a reperti provenienti da un'epoca meno remota:
Immagini che strappano sorrisi di nostalgia quando non sono inconsapevolmente, tristemente profetiche come questa:
Etichette:
Da qui messere si domina la valle,
soul food
Uno di quei giorni
"E' uno di quei giorni che ti prende la malinconia
che fino a sera non ti lascia più
la mia fede è troppo scossa ormai ma prego e penso fra di me
proviamo anche con dio non si sa mai
è uno di quei giorni in cui rivedo tutta la mia vita
bilancio che non ho quadrato mai"
che fino a sera non ti lascia più
la mia fede è troppo scossa ormai ma prego e penso fra di me
proviamo anche con dio non si sa mai
è uno di quei giorni in cui rivedo tutta la mia vita
bilancio che non ho quadrato mai"
domenica 1 novembre 2009
Lignes de fuite - 2 (Losanna)
Losanna – dove ero passata rapidamente nel ’92 in occasione di un concerto dei Cure – me la ricordavo proprio così: distinta e brumosa, il selciato umido di nebbia, le stradine acciottolate in salita, i meravigliosi palazzi d’inizio novecento, le lunghe finestre affondate nei tetti in ardesia che fanno tanto Parigi.
Non ricordavo, invece, o non avevo avuto modo di notare gli aspetti meno simpaticamente francesi della città: non c’è dubbio che gli Svizzeri di lingua tedesca superino ampiamente i compatrioti francofoni quanto ad affabilità e semplicità. Ed anche gli standard di igiene e pulizia sono molto più vicini a quelli francesi che a quelli svizzeri.
L’impressione generale – se può valere un’impressione ricavata da una permanenza di una giornata scarsa – è che gli abitanti di Losanna se la tirino un po’. In ogni caso la città è bellissima e il centro storico incantevole.
Il primo losannese che riusciamo ad avvicinare per un’informazione parla un italiano dal fortissimo accento sardo con cadenza francese.
Ha appena parcheggiato accanto a noi compiendo una manovra poco ortodossa e, nell’indicarci la direzione, ci suggerisce una manovra altrettanto scorretta “Tanto siete italiani, no?” dando per scontato che la violazione delle regole, comprese quelle di un paese straniero, sia un’attiudine naturale per un italiano, una caratteristica inscritta nel patrimonio genetico nazionale.
Più tardi, dopo aver inutilmente cercato a lungo un qualche locale senza pretese che soddisfacesse la nostra voglia di raclette e fondue finiamo nostro malgrado in uno sciccosissimo ristorante italiano dove siamo accolti con iniziale freddezza per via delle nostre scarpe da trekking e dove mi guadagno tutto il disprezzo del maître quando chiedo che i ravioli di zucca mi siano serviti senza olio al tartufo.
Dopo cena ci ritroviamo a vagabondare tra le strade deserte e, curiosando attraverso le vetrine ancora illuminate dei numerosi negozi d'antiquariato,
incappiamo in un locale che ci fa piombare in un clima vieille France e lì, finalmente, ci sentiamo subito a nostro agio.
Mentre il bluesman può finalmente dar sfogo alla sua turpe voglia di birra, io mi faccio due espressi e un tè, osservando gli avventori che paiono tutti usciti da una ballata di Brassens (noi compresi).
Peccato non essere riuscita a fotografare le composizioni di fiori finti inizio anni '70 che ornavano le nicchie tra una volta e l'altra. E, soprattutto, ad una settimana di distanza, brucia ancora il rimpianto per non aver approfittato della fondue servita su tovagliette di carta a quadretti bianchi e rossi. À la prochaine fois.
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