venerdì 30 ottobre 2009

Capitolo 2 "Coincidenze" - ottava puntata

“Cos’è che stai facendo? Un maglioncino per loro?”
Deirdre sospende il lavoro e ti guarda. Sicuramente ti sei introdotto nei suoi discorsi con un argomento a sproposito.
“No, è per me” spiega poi docilmente stirandosi il lavoro sulle gambe, disposta a perdonare la tua distrazione.
Come ha potuto Deirdre commettere un errore così clamoroso? Quel colore non c’entra niente con lei. Quello è uno dei nostri colori, vorresti dirle, mio e delle bambine, non ha niente a che fare con te. Ma ti limiti a tacere, tornando a guardare lo spettacolo offerto da Julia e Chloe che non smettono di cantare e ballare sulla raccolta di singoli dei Depeche Mode.
“Ma ti sembra musica per loro?” osserva a un tratto Deirdre arrestando di nuovo il lavoro.
“L’hanno scelta loro” ti giustifichi come cadendo dalle nuvole “Non vedi come se la stanno spassando?”
Prima o poi ascolteranno anche i miei dischi, è la frase che non pronunci ma che raggiunge comunque tua moglie; Deirdre ti guarda ancora per un attimo, poi allontana da sé ciò che stava per dire e torna a contare i punti sul grosso ago di legno.
Le bambine si muovono con estrema scioltezza; sicure del proprio corpo, del proprio senso del ritmo, provano i movimenti, ne discutono, li ripetono. E tuttavia Chloe subisce la ginnastica a scuola come una condanna, non condivide le lezioni di danza con Julia e si degna di venire a pattinare con te solo per farti un favore. Chloe si è allungata più di Julia in queste ultime settimane, concordate tu e Didi, e i capelli corti la rendono meno bambina. Intuisci in Chloe una sorta di disagio nei confronti dell’infanzia; difficile prevedere l’evoluzione di un’inquietudine così acerba eppure già così evidente.
Lo sguardo di Deirdre ritorna pensoso sulla lana violetta e i suoi lineamenti stanno per disegnare uno di quei malinconici visi irlandesi, asciutti e un po’ aguzzi, che ti devastano di tenerezza. Ma poi, come sempre, il suo sguardo luminoso dissolve ogni malinconia e tu sai di poter contare ancora su di lei e così le tue dita si mettono a ravviarle i capelli dritti e corvini e poi le fai scivolare la testa in grembo usurpando il posto del lavoro a maglia e in un attimo Chloe e Julia ti sono addosso e tu ti metti a recitare tutta la tua stanchezza e la tua voglia di dormire col tono esagerato di un attore tragico e le bambine sghignazzano di felicità e alla fine solo Deirdre riesce a mettere un po’ d’ordine e a convincere le piccole in pigiama ad andare a dormire.
“Teoricamente avrebbero avuto bisogno di un altro bagno… non sono state ferme un minuto” riflette Deirdre facendosi abbracciare. Tu chiudi la conversazione con un bacio e la tua mano scivola sicura a insinuarsi fra le sue natiche.
Gli occhi luccicanti di Deirdre emergono dalla notte come fari bagnati. “Di cosa dovevamo parlare?” chiedono le sue lunghe dita fluttuando sul tuo petto. Devi fare tesoro di questi momenti. Concentrati e assapora ogni dolcezza perché non ci saranno briciole d’amore sparse sul pavimento domattina. La luce del giorno dissolverà queste lenzuola e la lussuosa carrozza di Cenerentola ridiventerà un semplice ortaggio senza vita. Sai bene che le preziose tenerezze di Deirdre non possono essere riprodotte all’infinito come un suono campionato, un gene moltiplicato.
“Di cosa dovevamo parlare?” sussurrano ancora le sue labbra quasi contro le tue. Un’altra di queste esortazioni da bambina viziata e ti verrà voglia di ricominciare tutto da capo.
“Lo sai cosa penso, Steve?” prende respiro sgusciando dalle tue braccia. “Che tu non hai bisogno di nessun antidepressivo.”

* * * * * * * * * * * * * *
Lisbona, settembre 1989

“Steve, datti una calmata e vieni ad ascoltare questi signori che raccontano cose molto interessanti.”
Su una piattaforma leggermente rialzata, dal tavolino del bar dove è seduto, Alex mi fa cenno di raggiungerlo. È in compagnia di una coppia di belgi sulla cinquantina, abbronzantissimi e dal fisico
asciutto, l’abbigliamento sportivo e trasandato di due ecologisti radicali. Anche loro bloccati a terra senza sapere esattamente perché, ci raccontano in un inglese più che discreto che stanno pensando
seriamente di trasferirsi nelle Azzorre. Ogni volta che si apre una falla nel loro vocabolario Alex li soccorre prontamente in francese, e così, per una decina di minuti, almeno, mi lascio deviare dai miei tormenti, e viaggio attraverso crateri gorgoglianti, in mezzo a vapori che sprizzano dal sottosuolo, lungo vallate azzurre di ortensie. I racconti dei naviganti in barca a vela mi scaraventano ad un tratto in un abisso di tempeste e abbandono, mentre Alex e i belgi sorridono, sempre più lontani da me, e chiacchierano senza voce e scivolano via lenti, trascinati dalla corrente.
“Tu non lo faresti un lavoro del genere?” Uno zoom da vertigine mi riavvicina alla camicia consumata di Alex, le righine sottili - verde acqua e marrone, verde acqua e marrone - sbiadite in un disegno vecchio di almeno un secolo.
“Come dici, scusa?”
“Il seppellitore di stufati di carne e verdure…”
“Seppellitore di che?!!!”
Indifferente alla mia distrazione, la testa abbandonata sulle braccia conserte, Alex mi spiega nei dettagli, con stupefacente dovizia di particolari, come si prepara lo stufato che viene poi calato nelle profondità ribollenti della terra per essere sottoposto ad una cottura sotterranea di cinque ore.
“Ci mettono pollo, carne di maiale, di vacca, lardo…”
“Ma per favore, mi sta venendo da vomitare!” Mi alzo disgustato spingendo indietro la sedia in un fragore metallico e, mentre mi allontano desiderando solo di ricongiungermi ai consueti tormenti, sento Alex sghignazzare senza pietà e poi confessare ai belgi, ridendo: “Siamo vegetariani convinti…”
Il tabellone delle partenze non dà segni di vita, per quanto ci riguarda. Numerose destinazioni non sono raggiungibili per motivi che vengono genericamente definiti tecnici e l’aeroporto comincia a brulicare di viaggiatori frustrati e annoiati. Ho completamente perso di vista Gordon e gli altri: la nostra prima volta in Brasile sta iniziando fra i peggiori auspici, degno epilogo di un’estate disastrosa.
C’è qualche telefono che sia sfuggito alla mia attenzione? Mi sembra di averli passati in rassegna tutti, ormai, in ossequio ad una invincibile superstizione per cui un apparecchio potrebbe rivelarsi più fortunato di un altro e schiudermi miracolosamente un canale di comunicazione con Corinne. Mi è rimasta una manciata di monetine a malapena sufficienti a stabilire un contatto: se Corinne si decidesse a rispondere mi ritroverei come un idiota col ricevitore in mano e una frase, magari proprio la frase decisiva, mozzata in bocca. Ma vale comunque la pena di provare.
“La vuoi smettere di tormentare quella ragazza?”
Alex si è materializzato alla mia sinistra, appoggiato alla parete, le mani ficcate nelle tasche dei jeans martoriati, e la voce e l’espressione del viso non sono certo quelle del tizio che mezz’ora fa se la stava spassando con due sconosciuti davanti ad un bicchiere di birra.
Riaggancio sentendomi un idiota. “Hai idea di dove siano finiti gli altri?” chiedo ostentando disinvoltura, recuperando le mie preziose monetine portoghesi.
Alex non risponde e mentre conto gli spiccioli sento i suoi occhi su di me, duri come pietre.
“Lo sai, invidio molto la tua capacità di stare a galla” dichiaro provocatoriamente a un tratto, senza più evitare il suo sguardo. Indifferente, lui abbozza stringendosi nelle spalle. “Si chiama abitudine” spiega cinico. “È che conosco solo quella versione, vedi: non mi è mai capitato di lasciare qualcuno, ho sempre fatto la parte di quello che viene lasciato.”
“Quanto a questo siamo pari” affermo risoluto, sentendo di recuperare terreno.
Alex si stacca dalla parete, svogliato, indeciso. Non so cosa darei per sapere cosa gli sta passando per la testa. Ho nostalgia di Corinne. Ho nostalgia delle nostre notti: io, lei e Alex in giro per locali, oppure seduti sui gradini di casa a contare lucciole e pipistrelli.
Quand’è che te la scopavi, Alex, la mattina mentre dormivo? Era da te che veniva tutte le volte che usciva da sola? Me lo dirai un giorno, avrai il coraggio di spiegarmi di cosa era fatta veramente la vostra relazione?
“Corinne era malata” dichiara Alex osservando chissà cosa davanti a sé. Deve aver avvertito il mio urlo silenzioso, tutta la rabbia e l’angoscia che mi stanno divorando l’anima, perché aggiunge subito: “Non facevamo niente di speciale, sai? Si può dire che siamo stati più spesso al cinema che a letto.”
“È per questo che Corinne ha lasciato la Francia per Londra, dunque, solo per andare al cinema… una spiegazione quanto meno originale.”
La mia provocazione non lo sfiora minimamente: è il film della nostra storia con Corinne che gli sta passando davanti agli occhi ora. “Corinne aveva un sacco di problemi” prosegue scuotendo la testa “tutte quelle paranoie sul sesso, ad esempio…”
“Non mi dire che te ne sei accorto anche tu” ribatto acido.
“Il tuo errore è stato assecondarla.”
“Era quello che lei voleva da me.”
“Ho solo cercato di farle capire che non c’era niente di sporco nel sesso, niente di sbagliato.”
“Insomma mi stai dicendo che con me viveva il lato malato della storia e con te invece quello sano.”
Con il rapido gesto che conosco bene, Alex libera il viso di un paio di ciocche contorte.
“Credo si possa dire così” mi conferma dopo una breve riflessione, degnandomi dei suoi begli occhi taglienti.
“Bene” concludo automaticamente, stupidamente, sentendomi quasi svenire.
L’invito inatteso a bere qualcosa insieme, unito a una vigorosa stretta sul mio avambraccio sinistro, mi impedisce di cedere alla disperazione. Avvistiamo un paio di posti liberi nel solito bar e ne approfittiamo rapidamente.
“Né io né te le abbiamo chiesto di andarsene” sentenzia Alex abbandonandosi contro lo scomodo schienale metallico. “Avrebbe potuto scegliere tra noi due. Invece lei ha scelto di andarsene.”
Quello che Alex non riesce a capire è che io temo che Corinne sia capace di qualunque cosa.
“È così fragile…” provo ancora a giustificarla.
“Steve, non puoi sentirti responsabile delle scelte degli altri” mi interrompe deciso, poi concentra uno sguardo malinconico sulle mie mani e, scuotendo leggermente la testa aggiunge: “Forse abbiamo visto in lei qualcosa che in realtà non c’era, voglio dire...forse era solo una ragazzina viziata e immatura.”
Io continuo a sentirmi responsabile della sua fuga e delle conseguenze che questa fuga avrà sulla sua vita. Forse avrei dovuto fingere di non sapere di lei e Alex,mi sarei semplicemente dovuto fare carico di quella parte di sofferenza, forse il mio sacrificio sarebbe servito.
“Diciamoci la verità” Alex si stropiccia gli occhi con l’aria di uno che non ne può più. “Sapevamo perfettamente che il ménage à trois non avrebbe mai funzionato.”
Mi sta ribaltando addosso le stesse parole che proprio io gli ho ripetuto per mesi fin dai primi giorni del suo arrivo a Londra, quando, cercando casa, si era imbarcato in una storia assurda con la titolare dell’agenzia immobiliare, una specie di donna in carriera sposatissima che avrebbe potuto essere sua madre.
Sconsolato, Alex abbandona la testa sul tavolino ancora ingombro dei bicchieri sporchi di chissà chi.
L’ultima cosa che desidero in questo momento è partire per il Brasile. Non so davvero dove troverò la forza di fare tutto ciò che si ci si aspetta da me. Forse avremmo fatto meglio a cancellare tutto.
“Gordon ti avrebbe ammazzato” dice Alex sollevando uno sguardo assonnato.
Non so. La Svizzera, ecco, penso che in questomomentomi consolerebbe viaggiare per la Svizzera. Ho riletto da poco qualche pagina di Frankenstein e mi è rimasta addosso la voglia di quelle montagne nitide, di quei laghi limpidi, fiabeschi. Deve pur esserci qualcosa di potente in quei luoghi se hanno affascinato Shelley e Byron.
Alex sembra considerarmi qualche secondo col più profondo disprezzo. “Cosa pensi di trovarci da quelle parti, oltre a una quantità di gioiellerie e farmacie?”
Nessuno riesce a spiazzarmi come Alex. “Le farmacie possono essere molto interessanti” recupero, preparandomi a un nuovo duello.
“Non farti illusioni, senza ricetta non ti sganciano neanche la polvere del pavimento, ammesso che ce ne sia.”
“Sei molto esperto, vedo…”
“Ci sono cresciuto, da quelle parti.”
“Cosa vuol dire, scusa? Non sei cresciuto in Francia?”
Alex scuote la testa inghiottendo l’ultimo sorso di birra. “Collegi svizzeri” butta lì. “Quel genere di cose...”
“E come mai?” azzardo dopo un istante di incertezza.
“Un’iniziativa di mio padre, suppongo…”
Devo giocarmi bene le domande perché sento che la partita sta per chiudersi.
“I tuoi hanno divorziato?”
“Stammi a sentire” comincia con aria definitiva, scuotendosi via briciole inesistenti dai pantaloni. “Mio padre non l’ho mai neanche visto in faccia e mia madre deve aver trovato di meglio e se n’è andata via che ero ancora piccolo. Questo è quanto.”
La conversazione è destinata ad estinguersi. Non c’è molto da aggiungere, in effetti.
“Beh, comunque quei laghi mi piacerebbe vederli” concludo con calcolata indifferenza.
“Io li odio i laghi. Mi fanno pensare alla morte.”
Credevo di non avere rivali in materia di fantasie macabre. Benvenuto nel mio castello di incubi, Monsieur Ducrey.
“E comunque questa birra fa veramente pisciare… in tutti i sensi, intendo” accenna col capo al bicchiere vuoto mentre si alza con lenta rassegnazione. Poi, senza aggiungere altro, mi abbandona.

(da "L'inutile guida" ed. Progetto Cultura, 2009 - ottava puntata)

giovedì 29 ottobre 2009

19

Innocente o colpevole che fosse non ha importanza. Diciannovesimo atto di barbarie quest'anno in Texas.

Tutta casa, famiglia e quiz

Incappo casualmente in un articolo che potrebbe anche sembrare una buffonata, non fosse che ormai la politica berlusconiana ha ufficialmente bandito il confine tra serio e faceto (nonché tra verità e menzogna) per cui c'è da credere che anche quest'ultimo exploit di demenza governativa abbia un qualche fondamento reale.

Ora, io, pur avendo scelto di non averne, non ho niente contro i bambini o contro le famiglie numerose, sia chiaro. Solo mi inquieta l'interpretazione estremamente limitata del concetto di famiglia che questi tentati provvedimenti sottintendono. Naturalmente l'unica famiglia possibile per questo governo è quella composta da mamma, papà e tanti bambini. Tutti gli altri membri della società che lavorano e pagano le tasse, se non sono regolarmente sposati con prole, devono arrangiarsi e affrontare la crisi con mezzi propri.
Che aria tirasse l'avevamo già capito da tempo e sia sull'argomento fascismo che sull'argomento famiglia mi fermo qui. Perché quel che mi preme sottolineare di questa serie di provvedimenti è l'ultimo, demenziale punto: "premio amico della famiglia. Un concorso a premi che mette in palio 3 milioni di euro ai soggetti – compresi gli enti locali fino a 15mila abitanti – che hanno attuato interventi a favore delle famiglie." (cito direttamente dall'articolo apparso in rete).

Un concorso a premi. Premio amico della famiglia. Un po' mi viene da ridere, un po' mi viene da piangere. Non so. Non ho il televisore da quattordici anni e comincio a sentirmi una sovversiva.

mercoledì 28 ottobre 2009

Lettera aperta all'autore della recensione del Moonlight Festival apparsa sul sito www.erbadellastrega.it

Spettabile Redazione,

sono l'autrice del romanzo "L'inutile guida" presentato durante la seconda giornata del Moonlight Festival e mi rivolgo all'autore della
recensione per informarlo che del mio secondo romanzo pubblicato si può dire di tutto tranne che sia una "storia di musicisti tossici e alcolizzati".

È pur vero che il romanzo è stato presentato all'ora di pranzo, e sappiamo tutti che alle budella non si comanda e che più che l'onor potè il digiuno, ma se solo l'autore della recensione avesse resistito un quarto d'ora al richiamo dei succhi gastrici, avrebbe potuto farsi de "L'inutile guida" un'idea un po' meno grossolana.


Sarebbe stato molto più corretto da parte dell'autore della recensione non esprimere giudizi sul libro; sarebbe stato più serio, piuttosto, citarne solamente il titolo.
Sarebbe stato di gran lunga più professionale per l'autore della recensione attingere alla scheda pubblicata sul sito del Moonlight e svolgere così il proprio compitino con un'idea un po' più precisa circa i contenuti del romanzo.


Un lavoro che ha richiesto due anni di scrittura e uno di revisione non merita un giudizio così sbrigativo e volgare.
Non si scrive per hobby o per diletto. Scrivere costa fatica, una fatica che forse l'autore della recensione non sarebbe in grado di reggere visto che non riesce nemmeno a sostenere i morsi della fame per mezz'ora.

Personalmente tengo sempre in gran conto le critiche negative qualora siano motivate e frutto di una lettura attenta. Viceversa non permetto a nessuno di offendere gratuitamente le creature che ho portato in grembo per tre anni.

Sarebbe onesto oltre che doveroso da parte dell'autore della recensione rettificare pubblicamente il proprio giudizio. Grazie.


lunedì 26 ottobre 2009

Lignes de fuite -1 ( Yverdon- les- Bains, quasi un paese delle fiabe)

No, non ci sono andata al Bats over Milan Festival. Mai sentito parlare di bisogno di silenzio? L'ultima cosa di cui avessi bisogno la scorsa settimana era precisamente una bolgia negli inferi milanesi.

"Lignes de fuit" era il titolo della mostra che mi attirava come una calamita e io mi ci sono fiondata senza indugio, fuggendo da tutto ciò da cui si può fuggire.

Perciò sabato mattina io e il bluesman ci siamo alzati di buon'ora, abbiamo consolato la gatta con qualche croccantino extra e in men che non si dica ci siamo lasciati le Alpi alle spalle.
Attraversato il verde cuore della Svizzera cosparso di manciate di pecore e mucche - da notare l'ampia rappresentanza di esemplari neri per entrambe le specie - abbiamo raggiunto senza difficoltà il centro di
questa cittadina senza tempo che si affaccia sul lago Neuchâtel e, con altrettanta facilità, abbiamo trovato subito parcheggio nel centro cittadino, a un passo dalla nostra meta.

Scesa dalla macchina la prima visione da cui sono stata raggiunta è stata una significativa esposizione di zucche.

Dopo di che ho notato questa bella farmacia


e subito mi son persa tra le aiuole

infine ho raggiunto la piazza dedicata al buon Pestalozzi.


Nel corso delle poche ore trascorse in questo bizzarro paese di gnomi, fate e boulangerie siamo riusciti a:

1) perpetrare l’inspiegabile tradizione che ci guida, ogni volta che visitiamo una città svizzera per la prima volta, a trovare cibo e conforto in un bar gestito da brasiliani e/o portoghesi
2) assistere ad un matrimonio
3) testimoniare di un incidente stradale di lieve entità conclusosi con baci e abbracci tra investito e investitore sotto lo sguardo benevolo di due agenti della polizia.
Visitata la mostra dedicata a Mervyn Peake – di cui darò conto più avanti se la salute mentale mi assisterà – abbiamo lasciato a malincuore Yverdon e le sue strade antiche, la sua atmosfera inafferrabile, tra Spandau e il Berry di George Sand, le belle case a metà tra villa liberty e chalet di montagna, e, di lago in lago, siamo scesi verso Losanna.

venerdì 23 ottobre 2009

Capitolo 2 "Coincidenze" - settima puntata

Fra le parole che Deirdre accumula morbide e regolari sopra il lavoro a maglia capti a un tratto il nome di Mrs Brennan. Certo non ti è sfuggita la perplessità con cui Mrs Brennan ha accolto la tua decisione: quando ti sei affrettato a spiegarle che Sandra ti avrebbe sostituito brillantemente lei ha detto con molta semplicità di non avere dubbi in proposito, ma la sua mente era altrove. Mr Williams, lei deve pensare a se stesso, ha detto all’improvviso, interrompendoti, gli occhi stanchi fissi su di te, come in attesa. Le ragazze in carcere sono al sicuro, sembrava dire, ma tu non lo sei affatto.
Di cosa ti sei mai illuso? La gente come te non guarisce mai, dovresti saperlo. Hai solo imparato a difenderti da te stesso. E questo silenzio, questa monotona prevedibilità è il prezzo da pagare. A chi interessa sapere che a 12 anni vivevi trascinandoti nella testa interi blocchi di Les fleurs du mal o che ti sei letto tutto Camus di nascosto sotto il banco durante le lezioni di chimica? Tutto questo non è più moneta corrente, né qui né altrove. Qui a nessuno interessa quella tua fame dell’anima, quell’impazienza divorante che aveva fatto di te un autodidatta precoce. Era una specie di furibonda speranza ciò che ti faceva passare da un innamoramento all’altro, il bisogno di aprirsi un varco e respirare, vedere un po’ d’azzurro. Era stato per amore dei lieder di Schubert, per la golosità di quelle parole nuove, di nuovi sogni, che avevi rubato una grammatica tedesca dalla biblioteca della scuola. Non fosse stato per gli episodi di irriverenza feroce, i repentini moti di insubordinazione che scalfivano la tua preoccupante timidezza, ti saresti guadagnato senza alcun dubbio la fama di bambino prodigio. Ma il tuo sguardo andava ben oltre la piccola realtà che avevi attorno. Tutto ciò che desideravi era di essere lasciato libero. Dal giorno in cui hai aperto gli occhi su questo mondo tu non hai fatto altro che desiderare di essere altrove. Sei sempre stato perfettamente consapevole della tua condizione di accessorio superfluo della famiglia. Un’appendice inutile, una presenza del tutto casuale. Perciò hai imparato in fretta a ritirarti nella scatola delle tue fantasie: hai sempre e solo cercato di procurare il minor fastidio possibile. Ogni frammento di conoscenza rappresentava un gradino verso la libertà: ampliava il tuo mondo interiore e lo arricchiva, ti permetteva di prendere il largo e visitare nuove terre, nuovi sogni e modellare i compagni di viaggio che ti sarebbe piaciuto avere accanto. Lamusica di Debussy aveva su di te un potere ipnotico; potevi trascorrere pomeriggi interi a suonare Children’s Corner: se chiudevi gli occhi vedevi distintamente i fiocchi di neve posarsi delicati e lievi sui tasti del pianoforte, sui gradini di una vecchia casa di Parigi, vedevi tutta Parigi attraverso i boulevards ghiacciati ornati di alberi scheletrici, e una ragazzina - la solita - con una lunga sciarpa di lana intorno al collo usciva da una boulangerie e sentivi sotto le dita i tasti gelidi e le note soffici e oblique come i sogni. Era uno stordimento irresistibile che solo quelle armonie impalpabili riuscivano a procurarti, quasi il bisogno fisico di essere risucchiato da una spirale misteriosa, popolata di presenze amiche. Tutti quei luoghi, quelle persone, vivevano e crescevano dentro di te come deliziosi parassiti, come amici segreti cui ti rivolgevi d’istinto quando la realtà diventava noiosa e insopportabile. Costituivano il tuo mondo parallelo. Erano la tua via di fuga, la tua sola salvezza.
Per qualche strana ragione ogni particolare era ritornato a galla intatto, con lo stesso profumo struggente, nell’istante in cui ti eri trovato incatenato allo sguardo autorevole della dottoressa White. Sotto quel guscio caldo che avresti facilmente confuso con la cabina del capitano di un antico veliero non fosse stato per i disegni infantili alle pareti, la tua nuova città straniera, la città che aveva accolto la tua vita disastrata si stava muovendo al ritmo di ogni giorno, indifferente, laboriosa, tollerante. Dopo una buona mezz’ora trascorsa unicamente a singhiozzare tutta la tua disperazione, mentre la dottoressa White ti osservava tranquilla dall’altra parte della scrivania di legno scuro, le primissime parole che eri riuscito a pronunciare erano state per Elise. Trascinato a riva dalle lacrime, sulla spiaggia sassosa di Hastings era riaffiorato il primo autentico sogno della tua vita e finalmente gli stavi dando voce, gli davi il posto che gli spettava, finalmente, e sentivi di meritare un risarcimento per la sua scomparsa e chiedevi conto di quell’ingiustizia. Stremato e in ginocchio, al capolinea delle tue sofferenze, al tribunale dei tuoi errori, non avevi forse diritto a controbilanciare le accuse?
Elise era stata irraggiungibile da subito. Una bellezza metafisica che aveva folgorato la tua esistenza anonima di bambino qualunque. Un’autentica principessa che si degnava di alloggiare presso quegli sgangherati dei tuoi vicini di casa. Mamma, perché non ospitiamo anche noi delle studentesse straniere in estate?, ti ostinavi a chiedere pur conoscendo già le risposte: lo sai, tuo padre non vuole estranei per casa; oppure: lo sai, tuo padre dice che noi non abbiamo bisogno di quei soldi.
Così, la speranza di poter stabilire un contatto con una principessa francese come Elise restava confinata dietro i vetri della finestra da cui spiavi il suo ritorno dalle lezioni. Non sarebbe servito a nulla dirle che il tuo cuore poteva dilatarsi a dismisura, fino a contenere tutto l’amore, tutta l’ammirazione che provavi per i suoi lunghi capelli biondi, per la nobile indifferenza attraverso cui considerava il mondo. Tutto ciò che ti veniva concesso era immagazzinare nella tua anima quanti più particolari possibile: dallo scatto altezzoso del capo per ricondurre all’ordine il mantello della chioma, all’esile collo sempre fasciato da un foulard. Dentro il tuo letto illuminato dalla luce d’estate, iniziavi la giornata attendendo con trepidazione l’arrivo del postino che, prima di toccare il cancello di casa tua, aveva forse maneggiato e depositato nella cassetta di Mrs Butterfield una lettera proveniente dalla Francia. Una lettera per Elise. Il resto dei particolari, tutti i particolari, arrivavano da Robert e Sarah. Grazie al preziosissimo sodalizio con i gemelli di Mrs Butterfield avevi potuto prendere parte a quella indimenticabile passeggiata serale sul lungomare e ti era finalmente stato possibile camminare a pochi centimetri di distanza da Elise. Era la tua grande occasione: avresti addirittura potuto rivolgerle la parola. Il profumo croccante dei dolci è ancora lì intatto nella tua memoria, insieme alle zaffate di pesce e patatine fritte e agli involucri unti fra le mani delle compagne di Elise. Lei impeccabile, flessuosa, le dita che fermavano carezzevoli la chioma liscia strattonata dal vento, elargiva sorrisi con la cortesia formale di una principessa in visita ad un paese straniero. La sua classe innata le consentiva di tollerare con grazia la costrizione di una passeggiata con dei minuscoli esseri insignificanti, quando era chiaro che lei avrebbe voluto essere altrove. La verità ti aveva raggiunto come una freccia dritta nel cuore: si lascia toccare, dicevano Sarah e Robert, ha un ragazzo, un francese del suo gruppo, lei la sera esce di nascosto, l’abbiamo vista baciarsi, e lui la toccava.
Era dunque questo che si nascondeva sotto l’impazienza trattenuta della tua principessa? Era dunque a causa di quel francese alto e magro come un rastrello, era per via di quello spaventapasseri dalla zazzera spiovente sugli occhi scuri, era per quei suoi modi affettati da signore che tu venivi ricacciato in un angolo come un burattino senza vita, dimenticato per la sua totale inutilità?
Il conforto dei gemelli di Mrs Butterfield si era rivelato fondamentale per la tua sopravvivenza. Robert e Sarah, che condividevano con te l’ambigua condizione di ultimi arrivati in famiglia, erano diventati dei compagni di vita insostituibili: la vostra era fondamentalmente una società di mutuo soccorso contro fratelli e sorelle maggiori, contro le loro angherie e i loro dischi dei Beatles.
Sarebbe stato tutto più sopportabile se aveste potuto frequentare la stessa scuola, le stesse lezioni di religione, sperimentare insieme l’angoscia della Prima Comunione e delle cose da dire e da non dire dentro il confessionale. Invece c’era qualcosa di indefinibile a dividervi, qualcosa che non venivamai nominato e tantomeno messo in discussione. Qualcosa che aveva permesso a Mrs Butterfield di avere cinque figli da tre mariti, l’ultimo dei quali scandalosamente più giovane di lei. Avevi la sensazione che fosse lo stesso indefinibile qualcosa a fare di Mrs Butterfield una donna spiritosa e piena di vita che metteva in lavatrice gli stivali di gomma assieme alle mutande e stendeva ad asciugare le camicie con le maniche arrotolate. Era forse per via di quei lunghi capelli neri scarmigliati, la carnagione da zingara e le maglie scollate, forse per via di quel marito dai riccioli biondi che concedeva qualsiasi cosa ai bambini, era forse per l’insieme di tutte queste disastrose ragioni che mamma si sentiva in dovere di dare una mano a quella povera Heather, preparandole tonnellate di torta al rabarbaro o prelevando enormi ceste di panni da stirare. Saranno anche stati una famiglia di atei scombinati, come era solito definirli tuo padre, ma era evidente che mamma non avrebbe rinunciato per niente al mondo alla loro imprevedibile compagnia. Quanto a te, avresti dato qualsiasi cosa per farti adottare da Mrs Butterfield: avresti pagato volentieri il pegno di andare a scuola con qualche patacca di marmellata sulla maglia pur di iniziare la giornata con una lotta di cuscini insieme a Robert e Sarah.
(da "L'inutile guida" ed. Progetto Cultura, 2009 - settima puntata)

mercoledì 21 ottobre 2009

La donna che ride

Ecco, io sono così. ("Per un folle prodigio vado intatta/tra la calca ordinaria/che affolla marciapiede, strada e negozi leticanti"). Sono come questa enigmatica Frau lignea che domina una graziosa piazza di Altdorf. ("...perché il mio passo è disinvolto/come una pazza or ora evasa/e compro vino, pane/crisantemi dal casco d'oro). Perenne vessillo di normalità. Continuità. Trucco permanente. ("Come da ogni nervo straziato/vibra una nota di dolore/troppo acuta per l'orecchio del passante/così forse io sola, resa muta/dalla tua assenza, posso udire/l'urlo riarso del sole/ogni caduta e schianto/di stella sventrata/e, più stupida di un'oca/gli incessanti sibili e starnazzi di questo mondo fesso"*)

*Sylvia Plath "Street song"

martedì 20 ottobre 2009

Parole parole parole

Questo blog agonizza sotto il peso della mia sfiducia. Sfiducia nelle parole e nella loro efficacia. Solo le parole dette in malafede sono quelle che centrano sempre il bersaglio, che modellano la realtà a beneficio del potere.
Le altre parole, tutte le altre parole cadono semplicemente nel vuoto.

Ultimamente la mattina lascio il letto con un senso di minaccia incombente addosso. Il cielo ha un colore cattivo, la gatta si allontana dalla casa e quando torna ha modi da straniera. Le speranze hanno preso tutte un’altra strada e io non so lottare per ricondurle a me e non fare che fuggano come schegge impazzite, in libera uscita.

Snocciolo i rosari della vera disperazione per autoconvincermi a non mollare il predellino del treno dove resto aggrappata come un’intrusa, un’emigrante(“Yes but outside please” disse il piccolo uomo con accento napoletano alle due ragazze che volevano un gelato. Quasi Notting Hill Gate. Un sabato sera verso le sette, moltissimi anni fa).

Io non so tenere il ritmo delle mode.

Cercherò di accompagnare questo blog al compimento del suo primo e unico anno d’età. Poi seja o que Deus quiser.

domenica 18 ottobre 2009

Milano

A Milano mi sento più straniera che altrove. E dire che ai tempi dell'università era il mio rifugio e qualsiasi pretesto era buono per andarci anche di sabato.
Sarà che i treni - in particolare quelli delle Nord - sono ormai così lerci da scoraggiare anche i meno schizzinosi, sarà che raggiungerla in macchina non è precisamente uno svago, di fatto ormai ci vado di rado, generalmente per qualche concerto se proprio l'alternativa svizzera è impraticabile (potendo scegliere di solito mi accollo volentieri i 300 Km per Zurigo piuttosto che i 50 che mi separano da Milano).

Milano si è fatta così brutta da diventare irriconoscibile.
Se si esclude il solito centro, la città vera, quella degli studenti, degli stagisti, dei lavoratori precari, dei meridionali, degli islamici, degli immigrati tutti e dei milanesi, è una città squallida, sporca e opprimente. Non sto dicendo niente di originale, me ne rendo conto, ma la Milano che ho visto ieri è certamente una delle più degradate città d'Europa.
Milano è fondamentalmente auto parcheggiate ovunque, marciapiedi zebrati di piscio di cane, e pozze di piscio umano che si mescola a quello animale e una ragazza incinta che si appoggia a un muro imbrattato di piscio di cane, e poi escrementi sparsi e un tizio che scende dall'auto e vomita in mezzo alla strada e chiazze di vomito secco qua e là e il lungo elenco di schifezze e squallori potrebbe continuare ma mi limito ai capisaldi tra i segni distintivi del degrado urbano.
È un periodo in cui non ho alcuna voglia di scrivere ma lo schifo in cui mi sono trovata immersa ieri sera mi impedisce di stare zitta.
La famosa Milano che ospiterà l'Expo nel 2015 è essenzialmente una brutta città bistrattata da amministratori ignoranti, affamata e abbandonata a se stessa.

venerdì 16 ottobre 2009

Capitolo 2 "Coincidenze" - sesta puntata

“Il momento della mia scarcerazione si avvicina ed è come se una nube nera si addensasse sulla mia testa. Ho un macigno sul cuore. Questi mesi di pace e tranquillità saranno spazzati via dal fragore del traffico, dal silenzio di mio marito, dalle lacrime della sua famiglia, dall’indifferenza di mio padre. Non avrò mai laforza di affrontare ancora il mondo là fuori. Vorrei poter restare qui per sempre. Vorrei che tutto potesse continuare così fino alla fine dei miei giorni.
Qui ho trovato molte persone disposte ad ascoltarmi. Ho sempre opposto una certa resistenza all’aiuto che mi veniva offerto, come se non lo meritassi, come se il mio dolore fosse troppo grande per essere medicato. A volte penso a quanta energia ho impiegato per custodire il mio dolore dentro di me, per convivere con la mia ferita: se solo fosse possibile premere un interruttore e convertire questa energia in fiducia, speranza e amore per se stessi…se fosse stato possibile, come sarei andata lontano! Mi fanno ridere tutte quelle teorie sull’autostima. Quando ti mettono una gabbia intorno all’anima nel momento in cui vieni al mondo che possibilità hai di liberarti?”

Dovresti trovare la voglia di alzarti e metterti a cercare quella specie di agenda dove ti eri segnato l’appuntamento con la dottoressa White. Era fine ottobre, probabilmente; te l’eri scritto da qualche parte pensando qualcosa a proposito del compleanno e dei regali per le bambine. Certo da qui a fine ottobre è un tempo infinito.
La telefonata di tua moglie arriva provvidenziale. “Cosa stai facendo?”
“Niente. Hai fatto bene a chiamare. Tu cosa stai facendo?”
“Sto andando da un cliente. Un lavoro piuttosto importante”
“Abbastanza complicato da piacerti?”
“Direi di sì. Ci vediamo stasera?”
“Vado a prendere le bambine e penso io alla cena.”
“Tu hai fatto di me una vegetariana quasi perfetta.”
“Ho bisogno di parlarti Didi.”
“Naturalmente…”
Il tuo silenzio viene colmato dal ruggito di un autobus. Ti stai immaginando Didi e il suo passo sicuro, la valigetta del computer in una mano e il telefono nell’altra. Stai per chiederle come è vestita oggi, quando lei interviene con quel suo tono di affettuoso rimprovero.
“Steve, non startene tutto il giorno chiuso in casa. Non credo proprio sia stata una buona idea sospendere il lavoro al carcere.”
“Ho finito gli antidepressivi, cioè, voglio dire, quelli che ho in casa ormai sono scaduti…”
“Sei sicuro di averne bisogno?”
“Che domande…”
“Se sono scaduti vuol dire che sei riuscito a farne a meno per un sacco di tempo: cerca di vedere il lato positivo nelle cose…”
“Perché non mi prendi mai sul serio?”
“Oh, io ti prendo sempre sul serio, Steve, però penso anche che un tempo andavi dalla psichiatra due volte a settimana mentre ora ci vai ogni tre mesi giusto per chiacchierare delle bambine. Voglio dire, stasera parliamo, d’accordo, ma di qualunque cosa si tratti, per favore, non farne una tragedia come al solito.”
“Lo vedi che non mi prendi mai sul serio?”

“Qui ho tutto quello che mi serve per essere felice. Qui siamo tutte uguali. Non devo lottare, non devo difendermi, non devo dimostrare niente. I giorni sono tutti uguali e questo mi basta. Sono libera dalla schiavitù di comprare sempre nuovi vestiti per sentirmi all’altezza.
In un certo senso qui ho avuto tutto ciò che desideravo. Dopo questo non potrebbe esserci più niente, non vedo un’altra felicità possibile. Grazie a te qui ho trascorso uno dei periodi più felici della mia vita. Davvero ti devo molto: la mia esperienza della felicità è legata solo ed esclusivamente a te. Io non so, non ho mai saputo che peso dare alle coincidenze, se credere che abbiano un significato. Ti è mai capitato di rifletterci? Certo è piuttosto curioso questo continuo intrecciarsi fra la mia vita e la tua. Ci sono molte cose che non sai. Avevo bisogno di raccontarti, volevo che tu sapessi.
È strano come io ricordi con assoluta precisione ogni dettaglio della prima volta che ti ho incontrato (quasi vent’anni fa: ci pensi?) mentre ora non so più collocare con esattezza nel tempo il giorno in cui, contro ogni logica, contro qualsiasi ragionevole aspettativa, ti ritrovai di nuovo sulla mia strada qui a Dublino. Era sicuramente inverno ed era un giovedì pomeriggio, questo lo ricordo bene perché stavo consumando il mio turno di riposo vagando per le solite strade del centro senza decidermi a tornare a casa. Sapevo che se avessi proseguito per Grafton Street sarei finita in qualche negozio a comprarmi l’ennesima camicia inutile, perciò mi costrinsi a fare un giro da Tower Records - non ci mettevo piede da mesi - pensando che un cd economico avrebbe potuto essere un buon compromesso. Curiosavo distrattamente, senza trovare nulla di interessante, quando ti vidi. Un libro intero non sarebbe sufficiente a descrivere tutte le emozioni di quel momento. Il battito del mio cuore era incontrollabile. La mia testa scoppiava di domande. Aggrappata a te come una scimmietta c’era una bambina di un paio d’anni circa. Appollaiata al sicuro fra le tue braccia, osservava il mondo che ti si agitava alle spalle. Aveva
un’espressione piuttosto seria, quasi accigliata, mentre prendeva in considerazione tutto ciò che avveniva intorno a te. Come una guardia del corpo intenta a sventare qualsiasi minaccia di pericolo registrava ogni particolare dentro quei due incredibili occhi blu del tutto identici ai tuoi. Era il tuo angelo custode, evidentemente. In quel momento non sapevo - ma avrei dovuto immaginarlo - che per un’anima inquieta come la tua era stato previsto un angelo supplementare.
Stavi cercando qualcosa nel reparto di musica classica. Mi avvicinai fingendo di dare un’occhiata ai cd. La bambina era indiscutibilmente tua figlia: inutile fare altre congetture. Quante cose dovevano essere successe in quegli anni di silenzio, dopo la tua scomparsa dalle scene. Era dall’uscita di
Black Jungle che si erano perse le tue tracce. Mi feci una sorta di esame di coscienza: non ricordavo più la sequenza esatta dei brani di Black Jungle, non ricordavo più nemmeno tutti i titoli, e con i cd precedenti andava anche peggio. Nel frattempo tu avevi messo le mani su una copia di Pierino e il lupo raccontato da David Bowie e ti stavi già avviando alla cassa. Scendendo le scale
oltrepassasti con la massima indifferenza lo scaffale su cui campeggiava la scritta INDUSTRIAL/GOTHIC. Sapevi di essere stato classificato lì dentro? Di solito lì ci sbattono i pazzi furiosi che non trovano collocazione altrove. Seguendoti verso l’uscita, trovai il tempo di lasciare una rapidissima carezza sulla tua discografia, come per chiederti scusa di essermi dimenticata di te. Fuori era buio, le strade affollate. Tu eri già scomparso. Come una nuvola di passaggio. Come una visione.
C’è un cambiamento, mi disse Erin O’Shea quel pomeriggio: non sei più nel gruppo di Sandra, sei stata spostata nel gruppo di Steven. Poteva importarmene qualcosa? Chissà, forse Erin mi spiegò anche le ragioni di quel cambiamento, ma io non ci feci caso. Ero in prigione da un paio di settimane, forse, e avevo già perso la cognizione del tempo e avevo perso interesse per qualsiasi cosa. Ero già pentita di aver scelto di partecipare al laboratorio di musica come lo chiamavano loro. Forse avrei fatto meglio a restarmene sdraiata tutto il tempo a guardare la televisione e farmi scivolare addosso ogni singolo giorno della mia prigionia. Se vuoi puoi cominciare subito, stava dicendo Erin, loro stanno già provando. Spensi il televisore e la seguii come un automa senza pensare a nulla.
Devo esserti sembrata senz’altro una povera scema, una perfetta deficiente. Sai perché scoppiai subito in lacrime? Perché non ti avevo mai visto così felice. Tu eri lì che ridevi, eri seduto sul pavimento e dondolavi le ginocchia con l’aria di uno che si stava divertendo un mondo. C’erano alcune giovani donne sedute attorno a te e stavate parlando, ridendo, e io pensai che non ce l’avrei mai fatta, non avrei mai potuto sopportarlo. Ti alzasti a darmi il benvenuto e tutto quello che mi riuscì di fare fu di mettermi in un angolo a singhiozzare. Grazie per essere venuta, Lynn, la prossima volta andrà sicuramente meglio, mi dicesti alla fine mentre arrotolavi rapidamente un cavo. Continuai a piangere per giorni. Tutti pensavano che io piangessi per le ragioni per cui di solito si piange durante i primi giorni in prigione. Non potevo dire a nessuno la verità. Io piangevo per l’assurdità di tutto quanto. Piangevo perché non sapevo più chi avevo amato veramente per tutti quegli anni inutili della mia vita. Io piangevo per te. Piangevo per noi. Dall’alto dei nostri sogni, della nostra musica, di tutti i palcoscenici dove ti avevo cercato, ammirato, adorato, eravamo precipitati tutti e due sul pavimento di una prigione.”


È come se ti fosse franato addosso tutto quello che ti sembrava di aver costruito. Dove pensi di andare con la testa ingombra di calcinacci, l’anima imbrattata di polvere? Le voci delle bambine sono lontane, anche il profilo un po’ spigoloso di Deirdre si sta confondendo tra il lungo ago di legno e il gomitolo lilla che si srotola sul pavimento.
Troppo facile gettare tutto nella spazzatura, dire che è stato tutto sbagliato. E comunque non te lo potresti permettere, proprio ora che hai fatto terra bruciata dietro di te.
Hai qualche alternativa a tutto questo?


(da "L'inutile guida" ed. Progetto Cultura, 2009 - sesta puntata)

martedì 13 ottobre 2009

Tombeau des regrets - In memoriam Guillaume Depardieu (7 aprile 1971 - 13 ottobre 2008)

"Che cercate Voi, Signore, nella musica?"
"Io cerco le lacrime e i rimpianti"
(da "Tutte le mattine del mondo")
In ricordo di Guillaume e della sua breve vita vissuta con l'infelicità nel sangue. In ricordo della sua bellezza e del suo dolore, della spavalderia con cui mascherava l'angoscia, ho scelto immagini malandate ma preziose. Un documento di un realismo dolcissimo e spietato - un po' recitato un po' no, certo decisamente esibito - che dice tutto di Guillaume. Il disperato equilibrio tra istinto di sopravvivenza e necessità di autodistruzione. Autodistruzione come unico mezzo per affermare la propria identità. L'amputazione - fortemente avversata dal padre - come l'apice di un lungo processo di autoscarnificazione, come supremo sfregio all'ineliminabile ombra paterna. Un taglio netto, una parola definitiva.
Riposa in pace, Guillaume.

lunedì 12 ottobre 2009

Specialmente se il vento d'ottobre

"Specialmente se il vento d'ottobre
Con dita gelate punisce i miei capelli,
Artigliato dal sole cammino sulle fiamme
E getto un granchio d'ombra sulla terra"

Dylan Thomas "Especially when the october wind", traduzione Ariodante Marianni

sabato 10 ottobre 2009

Un vuoto immenso

"Chi glielo dice a chi è giovane adesso di quante volte si possa sbagliare,
fino al disgusto di ricominciare perchè ogni volta è poi sempre lo stesso.
[...]
Io dico sempre non voglio capire, ma è come un vizio sottile e più penso
più mi ritrovo questo vuoto immenso e per rimedio soltanto il dormire.
E poi ogni giorno mi torno a svegliare e resto incredulo, non vorrei alzarmi,
ma vivo ancora e son lì ad aspettarmi le mie domande, il mio niente, il mio male..."

(da "Canzone per Piero" di Francesco Guccini)

venerdì 9 ottobre 2009

Capitolo 1 "Holles Street" - quinta puntata

“In teoria dovrebbe rendere le cose più facili…” riflette Chris concentrandosi seriamente sui propri anfibi.
Invece io continuo a pensare che l’amore abbia qualcosa a che vedere coi sogni. Sì, io credo che sia da questo che uno riconosce l’amore: deve essere la materializzazione di un sogno, un sogno che forse non ti sei mai accorto di sognare, un sogno che giaceva dentro di te e che si rianima all’improvviso, proprio nell’istante in cui l’amore incrocia la tua vita.
“Ah già, dimenticavo” Chris solleva le mani in segno di resa. “Dimenticavo che tu punti in alto.”
So bene a cosa allude Chris. La mia dichiarazione d’amore incondizionato nei confronti di Chrissie Hynde dei Pretenders è finita su parecchi giornali, e comunque non mi pento di aver detto che la corteggerei senza pietà se solo qualcun altro non mi avesse già battuto sul tempo. Non è solo una questione di voce magica, talento e presenza scenica: Chrissie è davvero la donna meravigliosa che sembra. Per lei sarebbe stato più semplice ignorarmi, classificarmi come il solito presuntuoso in cerca di pubblicità. Che una dea come lei si degnasse di benedire pubblicamente il mio lavoro è molto più di quanto potessi ragionevolmente sperare: senza contare la lotta comune a favore del vegetarianesimo contro il massacro degli animali. È come se tutto cominciasse davvero ad avere un senso. Come se la mia vita avesse uno scopo, finalmente.
Anche l’appartamento di Camden potrebbe avere i mesi contati se tutto continua così.
È solo la faccenda di Mike e Carol a proiettare un’ombra di incertezza sui miei progetti. So che Mike ce la sta mettendo tutta per rimanere a galla, ma a voltemi spaventa: è come se non riuscisse a immaginare se stesso senza Carol. Quella cosa che mi ha detto l’altro giorno - la storia del paracadute - mi ha lasciato senza parole: mi sento come se fossi stato sganciato da un paracadute in un paese mai visto, mi ha detto, come se mi fossi svegliato in un altro mondo e dovessi reinventarmi una vita, ricominciare tutto da capo.
“Se quell’idiota che ci abitava prima non pagava il telefono che cazzo c’entra Mike?”
Chris sta superando il livello di guardia: nemmeno Mike lo vorrà tra i piedi in queste condizioni. Fermi in mezzo al marciapiede ci sono tre turisti, italiani, direi, a giudicare dai vestiti e dalla discussione accesa ad altissimo volume.
Le due ragazze sono le più agitate, mentre lui sembra mantenere la calma. Non capisco cosa sia andato storto, certo hanno l’aria di chi si è trovato una porta sbattuta in faccia. Guardano i passanti come se si stupissero della loro indifferenza. Benvenuti a Londra, gente: qualunque sia il vostro problema non troverete nessuno disposto ad aiutarvi, almeno fino a lunedì.
Con lo sguardo riesco ad abbracciare almeno nove ristoranti specializzati in altrettanti tipi di cucina. L’odore di carne arrostita e cipolle che spira dal bugigattolo accanto sta cominciando a infastidirmi seriamente. Intanto, in un basement poco distante si accendono le insegne verdi di un night club libanese, o così almeno sembra.
Do una gomitata a Chris indicandogli il locale. “Vuoi farti un giro? Ti andrebbe uno spettacolino di danza del ventre?”
Chris finalmente raccoglie. “Finiscila… non siamo vestiti nel modo giusto… una bella camicia di seta luccicante, ecco quello che ci voleva…tu poi con quei capelli... non ti farebbero neanche avvicinare all’ingresso.”
Franiamo tutti e due in una risata che mi fa venire voglia di birra, una voglia irresistibile di una pinta di lager gelata.
Mike, vuoi tirarti fuori dal letto, cazzo? Cerco di individuare la sua finestra, lassù al quarto piano, dove c’è solo una serie di rettangoli muti e senza luce.
Non appena sento scattare il pulsante che apre automaticamente il portone, afferro Chris come un sacco di patate e lo spingo nell’atrio davanti a me. Le due anziane signore in soprabito color crema, pentite di averci incautamente favorito l’ingresso, ci guardano con disprezzo. O non sarà piuttosto invidia e ammirazione per la mia inimitabile chioma selvaggia?
“Cercheremo di non essere in ritardo per la Messa! Intanto accendete un paio di candele per noi!” schiamazzo verso di loro, una volta al sicuro al di là del portone di vetro.
Quando sbuchiamo dall’ascensore ci troviamo davanti un elegantissimo signore corpulento, la pelle ambrata e un gran paio di baffi scuri; dietro di lui due sagome nere, il volto quasi interamente coperto da una maschera rigida. Percorriamo il corridoio fino all’appartamento di Mike, dentro la fragranza dolciastra e oleosa diffusa dalle due donne velate. Il campanello suona a vuoto. Busso solennemente.
“Siamo della compagnia dei telefoni, signore” annuncio con un assurdo accento del Nord. “Lei si rifiuta di pagare e noi siamo venuti a portarle via quel meraviglioso apparecchio preistorico che si ostina a tenere inutilmente in soggiorno… L’avevamo avvertita, signore… ora sfonderemo la porta…”
La maniglia che non oppone resistenza ci fa passare all’improvviso la voglia di scherzare. Sono ombre cupe quelle che riempiono l’appartamento e il ronzio del televisore è quello dei vicini, perché l’apparecchio di Mike lampeggia nella semioscurità solo immagini mute.
Sento la mia voce piegarsi in un tono inspiegabilmente carezzevole.
Il nome Mike resta lì sospeso in mezzo all’appartamento immobile, galleggia sull’odore stantio di caffè freddo e banane acerbe.
Dietro lo schermo del televisore, in un silenzio bianco e verde, si agitano i giocatori di cricket. Odio il sabato. Odio i pub gonfi di parole inutili: cricket e calcio per dimenticare che domani sarà domenica, un’altra orribile, inutile serie di puntini di sospensione in attesa che la giostra ricominci a girare. Ho sempre odiato il sabato sera.
“Mike, dove cazzo sei?” urlo alla fine terrorizzato sperando con tutto il cuore di trovare l’appartamento deserto. Cristo Mike, lo sai che non mi piacciono i thriller, penso spingendo con due dita la porta della camera da letto, che idea del cazzo uno scherzo del genere - bene, il letto è a posto, qui è tutto a posto - Ok, Mike, bastava dirlo che non avevi voglia di uscire con noi stasera, sarebbe stato più educato, oltre che più semplice, dirci…
Cado in ginocchio come se mi avessero colpito. Le mie dita affondano isteriche nella polpa pelosa della moquette per strapparla, distruggerla, squartarla. Cazzo cazzo cazzo. Urlo e pesto pugni finché ho fiato, finché le forze non mi abbandonano.
“Non toccarlo!” ordino mille volte a Chris bloccandolo per le caviglie e la mia voce è un fiume di lava, un fiume di terrore in piena.
“La polizia” risolvo con un’illuminazione improvvisa. “La polizia, Chris, chiama la polizia, e un’ambulanza, sì, dobbiamo chiamare un’ambulanza.”
Sì, è la cosa da fare, sarebbe la cosa da fare, se solo riuscissimo a muoverci, a disgiungerci da questa specie di abbraccio congelato.
Nell’angolo della doccia Mike dorme con le gambe piegate, imbrattate, e gli avambracci sporchi scorrono verso le mani nere, i palmi abbandonati all’insù, le dita raggrinzite in una preghiera spenta.
La morte è orribile, la morte è orribile, cazzo, orribile in tutte le sue maschere odiose.
“Non toccare niente” ripeto ossessivamente a Chris spingendolo fuori dall’appartamento. “Non toccare niente, Cristo, e lascia perdere quel cazzo di telefono, Cristo, cerchiamo un altro fottutissimo telefono, cazzo…”
La cabina. La cabina dove poco fa i tre italiani telefonavano e discutevano, la cabina rossa dove solo ieri sera stavamo giocando a Ziggy Stardust.
Chris intanto si è buttato contro ogni singola porta che si affaccia sul corridoio, supplica aiuto come un pazzo: i volumi dei televisori si abbassano, danno voce per un istante alla sua follia, poi ritornano pacificamente al livello consueto.
“Che cazzo ve ne state lì a guardare Eastenders, bastardi, voglio solo usare il telefono, lo capite o no?” Non una sola porta si apre sulla morte di Mike, sulla sua solitudine, sul nostro futuro annientato.
Mi prende una specie di compassione per Chris e per la sua disperazione e lo raggiungo in fondo al corridoio. “Vieni giù con me, Chris” provo a dirgli afferrandogli le braccia. “Ho bisogno del tuo aiuto. In strada c’è un telefono, devi scendere con me, devi tenermi aperta la porta, te lo ricordi che sennò poi non possiamo più rientrare? E noi dobbiamo rientrare, dobbiamo fare compagnia a Mike, non possiamo lasciarlo qui da solo mentre aspettiamo la polizia, giusto?”

È tutto finito. Tutto finito. La casa è crollata, tutto è crollato. L’America, John Peel, le copertine sul Melody Maker. Non è servito a niente. Era tutto finto, tutto uno scherzo. La vita è una merda senza rimedio su cui non si può costruire niente. Sopravvivere, vivere, significa solo schivare gli schizzi di merda con la maggior discrezione possibile. Spermatozoi sputati alla cieca che casualmente centrano il bersaglio: questo solo sono gli esseri umani. Un inutile capriccio della natura. Uno scherzo di cattivo gusto per il quale non sappiamo neanche chi ringraziare.
Stanno arrivando. Stanno arrivando, li senti? Polizia, medici, barelle. Arriva di tutto per te, Mike. Sono qui per te, cazzo, lo vuoi capire? Mi tappo le orecchie, non li voglio, non voglio sentire i loro passi, le loro voci, ti porteranno via per sempre, stabiliranno la tua morte e tu non esisterai più, cazzo, Mike, era davvero questo che volevi?
“Sì signore” rispondo meccanicamente cercando di rimettermi in piedi, asciugandomi la faccia con le mani.
“Hai capito la mia domanda?”
“Non credo, signore.”
Non saprò mai cosa mi abbia chiesto il poliziotto che ora sta controllando i nostri documenti, non ricorderò mai la sua faccia. La sua voce, però, è abbastanza rassicurante quando ci dice di stare tranquilli e di metterci comodi. Chris è ubriaco e io ho degli acidi nascosti nella tasca interna della giacca ma verremo senz’altro al comando, signore, sì lo sappiamo che sarà tutto messo a verbale, no, non mi sembra che abbiamo toccato niente…
“Purtroppo la giustizia deve fare il suo corso” ci consola all’improvviso il poliziotto gentile chinandosi su un ginocchio. “Dagli un’occhiata prima che venga messo sotto sequestro. Passeranno dei giorni prima che ti sia restituito. Dagli un’occhiata veloce, sbrigati…”
È davvero con me che sta parlando? Le dita guantate mi reggono davanti agli occhi una fotografia in bianco e nero. Siamo io e Mike a New York. Gordon ci aveva immortalati mentre giocavamo a fare i buskers in una qualche stazione della metropolitana. È una foto bellissima. Non vedi che sono Mick Jagger e Keith Richards quei due, sto quasi per ridere in faccia al poliziotto, ma poi gli occhi mi si sciolgono di nuovo sulla scritta rossa, vergata senza cura con un pennarello indelebile: dare a Steven.
Un rapido scatto delle dita guantate ed ecco il retro della foto.

Steve per favore non mandare all’aria tutto per questo.
Tu vai avanti e dimenticati di questo.
Non farmi sentire in colpa. Sai come dice la canzone
“la vita è molto lunga quando si è soli”(1)
MIKE

Passa un tempo infinito prima che io riesca a staccare la fronte dalle ginocchia. E ci riesco solo perché qualcuno mi invita insistentemente a farlo. Siamo costretti a lasciare Mike nelle loro mani. Un poliziotto ci sta congedando semplicemente con l’ordine di presentarci al comando domani mattina alle nove. Non è da vigliacchi lasciarti nelle loro mani, Mike? Era questo che avevi in mente?
L’avevi previsto che questa gente ti avrebbe portato via come un oggetto e come tale ti avrebbe infilato in un cassetto, parcheggiato in attesa che tutte le carte siano state esaminate, approvate, firmate?
Le porte dell’ambulanza si chiudono. L’idea che il corpo rigido e insanguinato di Mike stia percorrendo la città dentro quella attrezzatissima scatola mobile mi precipita in una sorta di vertigine disperata.
La vita è una merda senza senso.
Le auto del sabato sera, imbottite di illusioni, si allineano docili ai semafori, rallentano e ripartono trascinando speranze inutili.
I giardini di Kensington sono ormai un lugubre bosco silenzioso ammorbato dall’umidità. Sparsi qua e là, gli scheletri delle sedie a sdraio disegnano ancora i circoli muti dove sciami di donne velate hanno goduto il giorno.

(1) The Smiths, The queen is dead
(da "L'inutile guida" ed. Progetto Cultura, 2009 - quinta puntata)

giovedì 8 ottobre 2009

Per la cronaca

Domani ennesima giornata senz'acqua.
E io che mi ero messa in mente di fare le pulizie in grande stile.
Manco la casalinga mi fanno fare.

Segnalo

Un lunghissimo, intelligente articolo in ricordo di Willy DeVille sul numero di ottobre di Buscadero. Lo firma Mauro Zambellini, un'autorità in materia.

mercoledì 7 ottobre 2009

Un doveroso omaggio, date le circostanze (ovvero dopo la dichiarazione di incostituzionalità del Lodo Alfano da parte della Consulta)

Poeta di regime

Mettendo dentro 120 grammi
di penne Buitoni nel mio piatto
guardai la tele tutto soddisfatto:
"O Berlusconi, dio mio, dammi

le 200 cosce dei miei sogni
quotidiani!" supplicai, e venni
appena le danzanti quindicenni
riempirono lo schermo. I miei bisogni

d'amore avendo spruzzato sul muro
mi sedetti a mangiare. Ma nel giro
di un minuto mi ritornava duro

l'obelisco della poesia. Ché in tiro
sempre torna l'arcadico siluro
nel mezzo del programma che più ammiro.

(Aldo Nove, da "Fuoco su Babilonia!" poesie 1984 - 1996, Crocetti)

lunedì 5 ottobre 2009

"...flirtando con il nulla io sopravvivo"

La giacca un poco stretta sotto al mento
cammino a passi svelti e guardo avanti
fogliame smorto austero sparso al vento
che ghiaccia il cuore (non le mani, ho i guanti),
e m'obbliga a soffrire ciò che sento
immerso in dubbi e in sogni contrastanti:
ho visto lo splendore dell'inverno
posarsi su una roccia per l'eterno...

Ho visto per un attimo l'eterno:
cangiandosi è scaduto negli istanti
boriosi e vuoti. Torno a casa, spento...

È strano come tutto ci abbandoni,
che quanto appare immenso crolli presto
e il turbinare vuoto d'emozioni
ci porga adesso quello adesso questo,
stonando in preda a oscure sensazioni,
stordendoci per niente. È manifesto:
finito il tempo in cui tutto capivo
flirtando con il nulla io sopravvivo.

(Aldo Nove, da "Fuoco su Babilonia!" poesie 1984 - 1996, Crocetti)

domenica 4 ottobre 2009

Megalomania

A proposito del nuovo, imminente romanzo di Nick Cave "The death of Bunny Munro", leggo sull'ultimo numero di "Rumore" che "oltre al tradizionale formato cartaceo, è stato messo in commercio un audiolibro (anche in versione per iPhone!) con la lettura dell'autore e relativa colonna sonora realizzata dallo stesso Cave insieme a Warren Ellis. Quest'ultima uscirà poi in versione integrale su sette cd in un cofanetto che conterrà anche un dvd documentante i reading/concerto/intervista in programma questo mese"

E poi? La confezione natalizia no?

venerdì 2 ottobre 2009

Capitolo 1 "Holles Street" - quarta puntata

Davanti al portoncino laccato di rosso stai rovistando in cerca della chiave giusta e intanto ti ripassi nella testa l’ultimissima discussione con Deirdre, quella a proposito dei capelli di Chloe; speri solo di non dover riprendere il battibecco al punto in cui l’avete lasciato, non stasera, almeno. Meglio rimandare a domani, magari, quando avrai accontentato Chloe portandola a tagliarsi i capelli corti come desidera e Deirdre non potrà che arrendersi di fronte al fatto compiuto.
La casa è immersa nel silenzio. Deirdre, fasciata in un accappatoio candido, sta lavorando al computer seduta a gambe incrociate sul divano. Sembra l’immagine impeccabile di una qualche pubblicità, pensi mentre vi salutate silenziosamente con un rapidissimo contatto delle labbra. Per un poco, prima di rimettersi al lavoro, lei accarezza i tuoi gesti con uno sguardo radioso e tu le scivoli accanto stringendole la vita sottile fra le braccia, grato del morbido ticchettio della tastiera e del battito sicuro del suo cuore attraverso quelle ossa fragili.
Quando lei ti raggiunge in camera da letto sai con certezza, sai per l’ennesima volta che non aspettavi altro che questo, perché è ancora questo, solo questo che ti incatena alla radice di ogni giorno.
L’accappatoio bianco lampeggia a terra. Bastano poche carezze per saldarti a lei. “Bentornato tesoro” sussurra la breve pioggia dei suoi capelli sul tuo viso. Funziona sempre, è un meccanismo collaudato. Ogni volta scatta la medesima avidità, l’attrazione esercita ogni giorno lo stesso potere. Ecco: non è cambiato niente. Qui non cambia niente. Da sette anni è questa la tua sola certezza. Tutto trova riparo, giustificazione e conforto nel buio di questa pelle ruvida, dolciastra, che si incolla tenacemente alla tua con la regolarità di sempre.


Il rito dell’incursione in cucina dopo il sesso notturno l’aveva istituito Deirdre nel momento in cui avevi dato il via ai tuoi giorni di sobrietà. Per soppiantare la tua abitudine a stordirti di alcol dopo ogni rapporto, Deirdre aveva escogitato il tè della notte e, con l’ostinata pazienza con cui si insegna ai bambini a non fare pipì a letto, ti aveva allenato a gestire il distacco dei vostri corpi senza angoscia.
Normale. Ecco quello che dovrebbe essere l’aggettivo guida nella tua vita. Fare sesso è una cosa normale, rifletti spalmando un crostino con un’abbondante dose di marmellata di mirtillo. Deirdre, seduta sul tavolo, stira una gamba fino a sfiorare il lavello con l’alluce. Poi un lembo dell’accappatoio cede scoprendo la
coscia magra da ragazzina e la tua mano viene automaticamente calamitata per una carezza.
“Steve, tu ti senti in colpa anche quando le bambine prendono il raffreddore” dice Deirdre dondolando lenta una gamba e spiandoti teneramente.
“Sì, ma lei ha scritto quella lettera, quel diario, dedicandolo a me, non capisci?” protesti energicamente a bassa voce, disperando già di poter essere compreso.
“E tu l’hai letto?”
“Ma no, sono un sacco di pagine, un libro, quasi…” e sospiri massaggiandoti le tempie fra pollice e medio, visualizzando l’involto accartocciato nella tasca interna della tua giacca.
“Steve, tu non c’entri niente” conclude Deirdre scivolando giù dal tavolo e versandoti nella tazza quel che resta del tuo caffè di cereali.


* * * * * * * * * * * * * *

Londra, luglio 1986

Emergiamo dalla Circle Line direttamente su Kensington Gardens. Come sempre, l’animazione del sabato pomeriggio mi mette a disagio e mi fa desiderare di essere altrove. Mentre attraversiamo Bayswater Road non possiamo fare a meno di pensare che tutto il Medio Oriente si sia concentrato da queste parti.
Chris non riesce a tacere.
“Se sei già ubriaco adesso come pensi di arrivare a domani mattina?” esplodo a un tratto, irritato dalla prospettiva di trascinarmi in giro un rottame per tutta la notte.
Non ottengo nessuna risposta. Cazzo, è già completamente andato. Forse è il caso di parcheggiarlo e di uscire solo con Mike. Adesso ne parlo con lui e poi vediamo. Perché non rispondi a questo cazzo di citofono, Mike?
“Starà dormendo” conclude Chris rannicchiandosi a terra contro il massiccio portone di vetro dell’ingresso.
Non c’è altro da fare che aspettare: il telefono di Mike è totalmente fuori uso. Sembra che il proprietario dell’appartamento sia scappato in Australia lasciando una quantità di conti da pagare. La linea è scollegata da almeno due settimane e non oso pensare a
cosa potrebbe accadere in futuro. Ho paura che Mike dovrà cercarsi presto un nuovo appartamento, e non è esattamente il genere di
diversivo di cui ha bisogno ora: la sua vita da single ha preso il via in modo precipitoso, all’insegna dell’improvvisazione e di una serie di compromessi dal mio punto di vista inaccettabili.
Da qualche tempo ho una visione insolitamente lucida e autonoma della realtà. Di fatto, è da quando abbiamo registrato le sessions per lo show di John Peel che ho sviluppato una determinazione inattaccabile nei confronti del lavoro; è ciò che mi ha permesso di affrontare il tour negli States con la giusta concentrazione e i risultati non si sono fatti attendere. Suppongo sia l’effetto prodigioso di ciò che chiamano fiducia in se stessi, concetto fino ad ora piuttosto vago e inafferrabile, per quanto mi riguarda; un effetto che sto lasciando dilagare piacevolmente in tutti gli aspetti della mia vita. Una meravigliosa sensazione di sicurezza, infinitamente più stabile e duratura di quella che normalmente mi procura una buona bevuta.
La rottura fra Carol e Mike è l’unico elemento che sfugge al mio controllo: Mike sta cominciando a diventare un problema. Lui e Carol erano ancora alle elementari e già giravano mano nella mano: c’era da aspettarselo che prima o poi lei avrebbe messo gli occhi su qualcosa di diverso. Non capisco come si possa sposare a vent’anni la sola persona con cui sei stato. Non riesco ad avere neanche la più vaga idea di me e Sarah sposati.
“Non era lei che ti sei portato a casa l’altra notte?” osserva Chris in uno scatto di imprevedibile lucidità.
“E tu quando ti decidi ad andare a stare per conto tuo? Sono passati sei mesi da quando mi hai chiesto se potevi stare da me per un paio di settimane.”
Chris si guarda in giro e poi sospira. “Steve, se te la fai è perché ti piace: è matematico, preciso…”
Lascia perdere. Che senso ha discutere di certe cose con un ubriaco?
“Non sono ubriaco!” protesta grintoso. “E comunque io ti ho visto sempre e solo con Sarah, e non dirmi che non hai alternative…”
Ancora non riesco a capire cosa ci sia di così desiderabile nell’andare a letto ogni sera con una donna diversa: francamente mi è sempre sembrata una prospettiva angosciante. Non che il successo non mi piaccia, sia chiaro, ma non ho mai visto una connessione necessaria fra il successo e la promiscuità sessuale.
“Steve, a te piace andare controcorrente. È il tuo modo di metterti in mostra. Tu hai sempre questo bisogno di distinguerti ad ogni costo.”
Può darsi. Ma continuo a non capire perché si consideri una condizione invidiabile la possibilità di scopare con delle perfette sconosciute. Mi piace la gente che viene ai nostri concerti, ma il mio sogno è che dopo lo spettacolo tutti scompaiano all’istante: io non ho alcuna esigenza di entrare in contatto con chi compra i miei dischi. Io scrivo per me stesso, non per gli altri. Tutte quelle attenzioni finiscono per deconcentrare un artista, allontanarlo dal suo percorso. L’idea che delle ragazze mi aspettino fuori da un teatro mi fa solo venire voglia di scappare: non ci vedo la possibilità di avere del sesso senza fatica; ci vedo piuttosto delle baccanti furiose pronte a ridurmi in frammenti irriconoscibili.
“Steve, tu leggi troppo. E pensi troppo” sentenzia Chris scuotendo la testa. “Cosa c’era che non andava nella biondina di ieri sera?”
“Quale biondina?” Giuro che non riesco proprio a ricordare.
“Ma se ti è stata addosso tutta la sera…”
Mi ricordo solo della tipa che mi ha venduto dell’acido di merda, ma era tutto tranne che una biondina e aveva ben altro per la testa che stare lì a cercare di sedurmi.
“Cristo Steve, tu vivi proprio su un altro pianeta!”
Meglio il mio pianeta e i miei giochi con Sarah, almeno fino a quando l’amore non si deciderà a passare dalle mie parti. Tra me e Sarah non è cambiato poi molto rispetto a quando, da bambini, ci nascondevamo nella sua stanza a rotolarci fra le lenzuola sintetiche arancione.
“Fa ancora la cartomante?” si informa Chris dimostrando davvero di essere più lucido di quanto pensassi.
“Chiromante” mi sento in dovere di precisare, ripensando al musetto di gatto lentigginoso che sorride sotto i lunghi capelli disordinati. Rivedo a un tratto me e Sarah due giorni fa - lei accucciata nel suo angolino in subaffitto in un negozio di abiti usati in Chalk Farm Road, io che scendo a portarle qualcosa da mangiare, attraverso la strada assolata con una ciotola di zuppa d’avena in mano, mi immergo cieco nell’oscurità che sa di caverna e stracci fino ad accoccolarmi su un cuscino accanto a lei che mi sorride e prende delicatamente la ciotola dalle mie mani - e capisco all’improvviso, sorpreso di non esserci mai arrivato prima, capisco a un tratto come il mio rapporto con Sarah sia sempre consistito nella ricerca di un rifugio. Un riparo, un guscio protettivo: è questo che io e Sarah abbiamo sempre condiviso. Una scatola buia, nascosta
agli occhi del mondo, stipata dei nostri segreti. Ero stato io il primo a sapere, a vedere la ferita di sangue nero sulle sue mutandine: a me, prima che a chiunque altro, aveva confidato il misterioso cambiamento sgorgato dal suo corpo. Ogni segreto è sempre stato accuratamente filtrato attraverso il nostro patto di intimità prima di poter essere divulgato come notizia ufficiale.
“La chiromante è quella che legge le mani, giusto?” interviene Chris seguendo il filo delle sue indagini. “E così tu hai il privilegio di farti leggere gratis anche tutto il resto…”
L’esplorazione dei corpi ha costituito il segreto per eccellenza fra me e Sarah, ciò che ha saldato la nostra intesa. Stranamente, benché questo segreto non abbia più alcun motivo di rimanere tale, siamo entrambi totalmente reticenti ad ammettere l’evidenza. Una sorta di pudore retrospettivo nei confronti delle nostre famiglie, forse; la lunga ombra dell’infanzia che si stende ancora sulle nostre vite. Fra me e Sarah non potrebbe mai esserci niente più di questo, niente più di un residuo d’infanzia, un gioco destinato a morire di morte naturale. Mai una volta, neanche per scherzo, ci è capitato di pensare ad un futuro insieme. Davvero non capisco come si possa giurare amore eterno a qualcuno che conosci da sempre.

(da "L'inutile guida" ed. Progetto Cultura, 2009 - quarta puntata)

giovedì 1 ottobre 2009

Irish Times

"Garda Brendan McCann and electoral officer Hugh O’Donnell take a break before carrying the ballot box to another cottage for Lisbon Treaty voting, on Inishfree Island off the coast of Co Donegal. Islanders off the northwest coast became the first people to vote on the treaty yesterday. Photograph: Paul Faith/PA."
Ecco, mi piaceva semplicemente l'idea di cominciare il mese di ottobre con la front page dell'Irish Times edizione online. Mi piace immaginarmi in un cottage sull'isola di Inishfree ad aspettare questi due signori che affrontano venti e tempeste per offrirmi la possibilità di votare. Suppongo che offrirei loro una gigantesca mug di freshly made coffee. È ragionevole ipotizzare che insieme al caffè io offra una fetta di cheescake al limone. Tutto questo mentre fuori fischia il vento e infuria la bufera.
Ecco, l'unica cosa che non riesco a immaginare è cosa voterei.