venerdì 16 ottobre 2009

Capitolo 2 "Coincidenze" - sesta puntata

“Il momento della mia scarcerazione si avvicina ed è come se una nube nera si addensasse sulla mia testa. Ho un macigno sul cuore. Questi mesi di pace e tranquillità saranno spazzati via dal fragore del traffico, dal silenzio di mio marito, dalle lacrime della sua famiglia, dall’indifferenza di mio padre. Non avrò mai laforza di affrontare ancora il mondo là fuori. Vorrei poter restare qui per sempre. Vorrei che tutto potesse continuare così fino alla fine dei miei giorni.
Qui ho trovato molte persone disposte ad ascoltarmi. Ho sempre opposto una certa resistenza all’aiuto che mi veniva offerto, come se non lo meritassi, come se il mio dolore fosse troppo grande per essere medicato. A volte penso a quanta energia ho impiegato per custodire il mio dolore dentro di me, per convivere con la mia ferita: se solo fosse possibile premere un interruttore e convertire questa energia in fiducia, speranza e amore per se stessi…se fosse stato possibile, come sarei andata lontano! Mi fanno ridere tutte quelle teorie sull’autostima. Quando ti mettono una gabbia intorno all’anima nel momento in cui vieni al mondo che possibilità hai di liberarti?”

Dovresti trovare la voglia di alzarti e metterti a cercare quella specie di agenda dove ti eri segnato l’appuntamento con la dottoressa White. Era fine ottobre, probabilmente; te l’eri scritto da qualche parte pensando qualcosa a proposito del compleanno e dei regali per le bambine. Certo da qui a fine ottobre è un tempo infinito.
La telefonata di tua moglie arriva provvidenziale. “Cosa stai facendo?”
“Niente. Hai fatto bene a chiamare. Tu cosa stai facendo?”
“Sto andando da un cliente. Un lavoro piuttosto importante”
“Abbastanza complicato da piacerti?”
“Direi di sì. Ci vediamo stasera?”
“Vado a prendere le bambine e penso io alla cena.”
“Tu hai fatto di me una vegetariana quasi perfetta.”
“Ho bisogno di parlarti Didi.”
“Naturalmente…”
Il tuo silenzio viene colmato dal ruggito di un autobus. Ti stai immaginando Didi e il suo passo sicuro, la valigetta del computer in una mano e il telefono nell’altra. Stai per chiederle come è vestita oggi, quando lei interviene con quel suo tono di affettuoso rimprovero.
“Steve, non startene tutto il giorno chiuso in casa. Non credo proprio sia stata una buona idea sospendere il lavoro al carcere.”
“Ho finito gli antidepressivi, cioè, voglio dire, quelli che ho in casa ormai sono scaduti…”
“Sei sicuro di averne bisogno?”
“Che domande…”
“Se sono scaduti vuol dire che sei riuscito a farne a meno per un sacco di tempo: cerca di vedere il lato positivo nelle cose…”
“Perché non mi prendi mai sul serio?”
“Oh, io ti prendo sempre sul serio, Steve, però penso anche che un tempo andavi dalla psichiatra due volte a settimana mentre ora ci vai ogni tre mesi giusto per chiacchierare delle bambine. Voglio dire, stasera parliamo, d’accordo, ma di qualunque cosa si tratti, per favore, non farne una tragedia come al solito.”
“Lo vedi che non mi prendi mai sul serio?”

“Qui ho tutto quello che mi serve per essere felice. Qui siamo tutte uguali. Non devo lottare, non devo difendermi, non devo dimostrare niente. I giorni sono tutti uguali e questo mi basta. Sono libera dalla schiavitù di comprare sempre nuovi vestiti per sentirmi all’altezza.
In un certo senso qui ho avuto tutto ciò che desideravo. Dopo questo non potrebbe esserci più niente, non vedo un’altra felicità possibile. Grazie a te qui ho trascorso uno dei periodi più felici della mia vita. Davvero ti devo molto: la mia esperienza della felicità è legata solo ed esclusivamente a te. Io non so, non ho mai saputo che peso dare alle coincidenze, se credere che abbiano un significato. Ti è mai capitato di rifletterci? Certo è piuttosto curioso questo continuo intrecciarsi fra la mia vita e la tua. Ci sono molte cose che non sai. Avevo bisogno di raccontarti, volevo che tu sapessi.
È strano come io ricordi con assoluta precisione ogni dettaglio della prima volta che ti ho incontrato (quasi vent’anni fa: ci pensi?) mentre ora non so più collocare con esattezza nel tempo il giorno in cui, contro ogni logica, contro qualsiasi ragionevole aspettativa, ti ritrovai di nuovo sulla mia strada qui a Dublino. Era sicuramente inverno ed era un giovedì pomeriggio, questo lo ricordo bene perché stavo consumando il mio turno di riposo vagando per le solite strade del centro senza decidermi a tornare a casa. Sapevo che se avessi proseguito per Grafton Street sarei finita in qualche negozio a comprarmi l’ennesima camicia inutile, perciò mi costrinsi a fare un giro da Tower Records - non ci mettevo piede da mesi - pensando che un cd economico avrebbe potuto essere un buon compromesso. Curiosavo distrattamente, senza trovare nulla di interessante, quando ti vidi. Un libro intero non sarebbe sufficiente a descrivere tutte le emozioni di quel momento. Il battito del mio cuore era incontrollabile. La mia testa scoppiava di domande. Aggrappata a te come una scimmietta c’era una bambina di un paio d’anni circa. Appollaiata al sicuro fra le tue braccia, osservava il mondo che ti si agitava alle spalle. Aveva
un’espressione piuttosto seria, quasi accigliata, mentre prendeva in considerazione tutto ciò che avveniva intorno a te. Come una guardia del corpo intenta a sventare qualsiasi minaccia di pericolo registrava ogni particolare dentro quei due incredibili occhi blu del tutto identici ai tuoi. Era il tuo angelo custode, evidentemente. In quel momento non sapevo - ma avrei dovuto immaginarlo - che per un’anima inquieta come la tua era stato previsto un angelo supplementare.
Stavi cercando qualcosa nel reparto di musica classica. Mi avvicinai fingendo di dare un’occhiata ai cd. La bambina era indiscutibilmente tua figlia: inutile fare altre congetture. Quante cose dovevano essere successe in quegli anni di silenzio, dopo la tua scomparsa dalle scene. Era dall’uscita di
Black Jungle che si erano perse le tue tracce. Mi feci una sorta di esame di coscienza: non ricordavo più la sequenza esatta dei brani di Black Jungle, non ricordavo più nemmeno tutti i titoli, e con i cd precedenti andava anche peggio. Nel frattempo tu avevi messo le mani su una copia di Pierino e il lupo raccontato da David Bowie e ti stavi già avviando alla cassa. Scendendo le scale
oltrepassasti con la massima indifferenza lo scaffale su cui campeggiava la scritta INDUSTRIAL/GOTHIC. Sapevi di essere stato classificato lì dentro? Di solito lì ci sbattono i pazzi furiosi che non trovano collocazione altrove. Seguendoti verso l’uscita, trovai il tempo di lasciare una rapidissima carezza sulla tua discografia, come per chiederti scusa di essermi dimenticata di te. Fuori era buio, le strade affollate. Tu eri già scomparso. Come una nuvola di passaggio. Come una visione.
C’è un cambiamento, mi disse Erin O’Shea quel pomeriggio: non sei più nel gruppo di Sandra, sei stata spostata nel gruppo di Steven. Poteva importarmene qualcosa? Chissà, forse Erin mi spiegò anche le ragioni di quel cambiamento, ma io non ci feci caso. Ero in prigione da un paio di settimane, forse, e avevo già perso la cognizione del tempo e avevo perso interesse per qualsiasi cosa. Ero già pentita di aver scelto di partecipare al laboratorio di musica come lo chiamavano loro. Forse avrei fatto meglio a restarmene sdraiata tutto il tempo a guardare la televisione e farmi scivolare addosso ogni singolo giorno della mia prigionia. Se vuoi puoi cominciare subito, stava dicendo Erin, loro stanno già provando. Spensi il televisore e la seguii come un automa senza pensare a nulla.
Devo esserti sembrata senz’altro una povera scema, una perfetta deficiente. Sai perché scoppiai subito in lacrime? Perché non ti avevo mai visto così felice. Tu eri lì che ridevi, eri seduto sul pavimento e dondolavi le ginocchia con l’aria di uno che si stava divertendo un mondo. C’erano alcune giovani donne sedute attorno a te e stavate parlando, ridendo, e io pensai che non ce l’avrei mai fatta, non avrei mai potuto sopportarlo. Ti alzasti a darmi il benvenuto e tutto quello che mi riuscì di fare fu di mettermi in un angolo a singhiozzare. Grazie per essere venuta, Lynn, la prossima volta andrà sicuramente meglio, mi dicesti alla fine mentre arrotolavi rapidamente un cavo. Continuai a piangere per giorni. Tutti pensavano che io piangessi per le ragioni per cui di solito si piange durante i primi giorni in prigione. Non potevo dire a nessuno la verità. Io piangevo per l’assurdità di tutto quanto. Piangevo perché non sapevo più chi avevo amato veramente per tutti quegli anni inutili della mia vita. Io piangevo per te. Piangevo per noi. Dall’alto dei nostri sogni, della nostra musica, di tutti i palcoscenici dove ti avevo cercato, ammirato, adorato, eravamo precipitati tutti e due sul pavimento di una prigione.”


È come se ti fosse franato addosso tutto quello che ti sembrava di aver costruito. Dove pensi di andare con la testa ingombra di calcinacci, l’anima imbrattata di polvere? Le voci delle bambine sono lontane, anche il profilo un po’ spigoloso di Deirdre si sta confondendo tra il lungo ago di legno e il gomitolo lilla che si srotola sul pavimento.
Troppo facile gettare tutto nella spazzatura, dire che è stato tutto sbagliato. E comunque non te lo potresti permettere, proprio ora che hai fatto terra bruciata dietro di te.
Hai qualche alternativa a tutto questo?


(da "L'inutile guida" ed. Progetto Cultura, 2009 - sesta puntata)

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