venerdì 9 ottobre 2009

Capitolo 1 "Holles Street" - quinta puntata

“In teoria dovrebbe rendere le cose più facili…” riflette Chris concentrandosi seriamente sui propri anfibi.
Invece io continuo a pensare che l’amore abbia qualcosa a che vedere coi sogni. Sì, io credo che sia da questo che uno riconosce l’amore: deve essere la materializzazione di un sogno, un sogno che forse non ti sei mai accorto di sognare, un sogno che giaceva dentro di te e che si rianima all’improvviso, proprio nell’istante in cui l’amore incrocia la tua vita.
“Ah già, dimenticavo” Chris solleva le mani in segno di resa. “Dimenticavo che tu punti in alto.”
So bene a cosa allude Chris. La mia dichiarazione d’amore incondizionato nei confronti di Chrissie Hynde dei Pretenders è finita su parecchi giornali, e comunque non mi pento di aver detto che la corteggerei senza pietà se solo qualcun altro non mi avesse già battuto sul tempo. Non è solo una questione di voce magica, talento e presenza scenica: Chrissie è davvero la donna meravigliosa che sembra. Per lei sarebbe stato più semplice ignorarmi, classificarmi come il solito presuntuoso in cerca di pubblicità. Che una dea come lei si degnasse di benedire pubblicamente il mio lavoro è molto più di quanto potessi ragionevolmente sperare: senza contare la lotta comune a favore del vegetarianesimo contro il massacro degli animali. È come se tutto cominciasse davvero ad avere un senso. Come se la mia vita avesse uno scopo, finalmente.
Anche l’appartamento di Camden potrebbe avere i mesi contati se tutto continua così.
È solo la faccenda di Mike e Carol a proiettare un’ombra di incertezza sui miei progetti. So che Mike ce la sta mettendo tutta per rimanere a galla, ma a voltemi spaventa: è come se non riuscisse a immaginare se stesso senza Carol. Quella cosa che mi ha detto l’altro giorno - la storia del paracadute - mi ha lasciato senza parole: mi sento come se fossi stato sganciato da un paracadute in un paese mai visto, mi ha detto, come se mi fossi svegliato in un altro mondo e dovessi reinventarmi una vita, ricominciare tutto da capo.
“Se quell’idiota che ci abitava prima non pagava il telefono che cazzo c’entra Mike?”
Chris sta superando il livello di guardia: nemmeno Mike lo vorrà tra i piedi in queste condizioni. Fermi in mezzo al marciapiede ci sono tre turisti, italiani, direi, a giudicare dai vestiti e dalla discussione accesa ad altissimo volume.
Le due ragazze sono le più agitate, mentre lui sembra mantenere la calma. Non capisco cosa sia andato storto, certo hanno l’aria di chi si è trovato una porta sbattuta in faccia. Guardano i passanti come se si stupissero della loro indifferenza. Benvenuti a Londra, gente: qualunque sia il vostro problema non troverete nessuno disposto ad aiutarvi, almeno fino a lunedì.
Con lo sguardo riesco ad abbracciare almeno nove ristoranti specializzati in altrettanti tipi di cucina. L’odore di carne arrostita e cipolle che spira dal bugigattolo accanto sta cominciando a infastidirmi seriamente. Intanto, in un basement poco distante si accendono le insegne verdi di un night club libanese, o così almeno sembra.
Do una gomitata a Chris indicandogli il locale. “Vuoi farti un giro? Ti andrebbe uno spettacolino di danza del ventre?”
Chris finalmente raccoglie. “Finiscila… non siamo vestiti nel modo giusto… una bella camicia di seta luccicante, ecco quello che ci voleva…tu poi con quei capelli... non ti farebbero neanche avvicinare all’ingresso.”
Franiamo tutti e due in una risata che mi fa venire voglia di birra, una voglia irresistibile di una pinta di lager gelata.
Mike, vuoi tirarti fuori dal letto, cazzo? Cerco di individuare la sua finestra, lassù al quarto piano, dove c’è solo una serie di rettangoli muti e senza luce.
Non appena sento scattare il pulsante che apre automaticamente il portone, afferro Chris come un sacco di patate e lo spingo nell’atrio davanti a me. Le due anziane signore in soprabito color crema, pentite di averci incautamente favorito l’ingresso, ci guardano con disprezzo. O non sarà piuttosto invidia e ammirazione per la mia inimitabile chioma selvaggia?
“Cercheremo di non essere in ritardo per la Messa! Intanto accendete un paio di candele per noi!” schiamazzo verso di loro, una volta al sicuro al di là del portone di vetro.
Quando sbuchiamo dall’ascensore ci troviamo davanti un elegantissimo signore corpulento, la pelle ambrata e un gran paio di baffi scuri; dietro di lui due sagome nere, il volto quasi interamente coperto da una maschera rigida. Percorriamo il corridoio fino all’appartamento di Mike, dentro la fragranza dolciastra e oleosa diffusa dalle due donne velate. Il campanello suona a vuoto. Busso solennemente.
“Siamo della compagnia dei telefoni, signore” annuncio con un assurdo accento del Nord. “Lei si rifiuta di pagare e noi siamo venuti a portarle via quel meraviglioso apparecchio preistorico che si ostina a tenere inutilmente in soggiorno… L’avevamo avvertita, signore… ora sfonderemo la porta…”
La maniglia che non oppone resistenza ci fa passare all’improvviso la voglia di scherzare. Sono ombre cupe quelle che riempiono l’appartamento e il ronzio del televisore è quello dei vicini, perché l’apparecchio di Mike lampeggia nella semioscurità solo immagini mute.
Sento la mia voce piegarsi in un tono inspiegabilmente carezzevole.
Il nome Mike resta lì sospeso in mezzo all’appartamento immobile, galleggia sull’odore stantio di caffè freddo e banane acerbe.
Dietro lo schermo del televisore, in un silenzio bianco e verde, si agitano i giocatori di cricket. Odio il sabato. Odio i pub gonfi di parole inutili: cricket e calcio per dimenticare che domani sarà domenica, un’altra orribile, inutile serie di puntini di sospensione in attesa che la giostra ricominci a girare. Ho sempre odiato il sabato sera.
“Mike, dove cazzo sei?” urlo alla fine terrorizzato sperando con tutto il cuore di trovare l’appartamento deserto. Cristo Mike, lo sai che non mi piacciono i thriller, penso spingendo con due dita la porta della camera da letto, che idea del cazzo uno scherzo del genere - bene, il letto è a posto, qui è tutto a posto - Ok, Mike, bastava dirlo che non avevi voglia di uscire con noi stasera, sarebbe stato più educato, oltre che più semplice, dirci…
Cado in ginocchio come se mi avessero colpito. Le mie dita affondano isteriche nella polpa pelosa della moquette per strapparla, distruggerla, squartarla. Cazzo cazzo cazzo. Urlo e pesto pugni finché ho fiato, finché le forze non mi abbandonano.
“Non toccarlo!” ordino mille volte a Chris bloccandolo per le caviglie e la mia voce è un fiume di lava, un fiume di terrore in piena.
“La polizia” risolvo con un’illuminazione improvvisa. “La polizia, Chris, chiama la polizia, e un’ambulanza, sì, dobbiamo chiamare un’ambulanza.”
Sì, è la cosa da fare, sarebbe la cosa da fare, se solo riuscissimo a muoverci, a disgiungerci da questa specie di abbraccio congelato.
Nell’angolo della doccia Mike dorme con le gambe piegate, imbrattate, e gli avambracci sporchi scorrono verso le mani nere, i palmi abbandonati all’insù, le dita raggrinzite in una preghiera spenta.
La morte è orribile, la morte è orribile, cazzo, orribile in tutte le sue maschere odiose.
“Non toccare niente” ripeto ossessivamente a Chris spingendolo fuori dall’appartamento. “Non toccare niente, Cristo, e lascia perdere quel cazzo di telefono, Cristo, cerchiamo un altro fottutissimo telefono, cazzo…”
La cabina. La cabina dove poco fa i tre italiani telefonavano e discutevano, la cabina rossa dove solo ieri sera stavamo giocando a Ziggy Stardust.
Chris intanto si è buttato contro ogni singola porta che si affaccia sul corridoio, supplica aiuto come un pazzo: i volumi dei televisori si abbassano, danno voce per un istante alla sua follia, poi ritornano pacificamente al livello consueto.
“Che cazzo ve ne state lì a guardare Eastenders, bastardi, voglio solo usare il telefono, lo capite o no?” Non una sola porta si apre sulla morte di Mike, sulla sua solitudine, sul nostro futuro annientato.
Mi prende una specie di compassione per Chris e per la sua disperazione e lo raggiungo in fondo al corridoio. “Vieni giù con me, Chris” provo a dirgli afferrandogli le braccia. “Ho bisogno del tuo aiuto. In strada c’è un telefono, devi scendere con me, devi tenermi aperta la porta, te lo ricordi che sennò poi non possiamo più rientrare? E noi dobbiamo rientrare, dobbiamo fare compagnia a Mike, non possiamo lasciarlo qui da solo mentre aspettiamo la polizia, giusto?”

È tutto finito. Tutto finito. La casa è crollata, tutto è crollato. L’America, John Peel, le copertine sul Melody Maker. Non è servito a niente. Era tutto finto, tutto uno scherzo. La vita è una merda senza rimedio su cui non si può costruire niente. Sopravvivere, vivere, significa solo schivare gli schizzi di merda con la maggior discrezione possibile. Spermatozoi sputati alla cieca che casualmente centrano il bersaglio: questo solo sono gli esseri umani. Un inutile capriccio della natura. Uno scherzo di cattivo gusto per il quale non sappiamo neanche chi ringraziare.
Stanno arrivando. Stanno arrivando, li senti? Polizia, medici, barelle. Arriva di tutto per te, Mike. Sono qui per te, cazzo, lo vuoi capire? Mi tappo le orecchie, non li voglio, non voglio sentire i loro passi, le loro voci, ti porteranno via per sempre, stabiliranno la tua morte e tu non esisterai più, cazzo, Mike, era davvero questo che volevi?
“Sì signore” rispondo meccanicamente cercando di rimettermi in piedi, asciugandomi la faccia con le mani.
“Hai capito la mia domanda?”
“Non credo, signore.”
Non saprò mai cosa mi abbia chiesto il poliziotto che ora sta controllando i nostri documenti, non ricorderò mai la sua faccia. La sua voce, però, è abbastanza rassicurante quando ci dice di stare tranquilli e di metterci comodi. Chris è ubriaco e io ho degli acidi nascosti nella tasca interna della giacca ma verremo senz’altro al comando, signore, sì lo sappiamo che sarà tutto messo a verbale, no, non mi sembra che abbiamo toccato niente…
“Purtroppo la giustizia deve fare il suo corso” ci consola all’improvviso il poliziotto gentile chinandosi su un ginocchio. “Dagli un’occhiata prima che venga messo sotto sequestro. Passeranno dei giorni prima che ti sia restituito. Dagli un’occhiata veloce, sbrigati…”
È davvero con me che sta parlando? Le dita guantate mi reggono davanti agli occhi una fotografia in bianco e nero. Siamo io e Mike a New York. Gordon ci aveva immortalati mentre giocavamo a fare i buskers in una qualche stazione della metropolitana. È una foto bellissima. Non vedi che sono Mick Jagger e Keith Richards quei due, sto quasi per ridere in faccia al poliziotto, ma poi gli occhi mi si sciolgono di nuovo sulla scritta rossa, vergata senza cura con un pennarello indelebile: dare a Steven.
Un rapido scatto delle dita guantate ed ecco il retro della foto.

Steve per favore non mandare all’aria tutto per questo.
Tu vai avanti e dimenticati di questo.
Non farmi sentire in colpa. Sai come dice la canzone
“la vita è molto lunga quando si è soli”(1)
MIKE

Passa un tempo infinito prima che io riesca a staccare la fronte dalle ginocchia. E ci riesco solo perché qualcuno mi invita insistentemente a farlo. Siamo costretti a lasciare Mike nelle loro mani. Un poliziotto ci sta congedando semplicemente con l’ordine di presentarci al comando domani mattina alle nove. Non è da vigliacchi lasciarti nelle loro mani, Mike? Era questo che avevi in mente?
L’avevi previsto che questa gente ti avrebbe portato via come un oggetto e come tale ti avrebbe infilato in un cassetto, parcheggiato in attesa che tutte le carte siano state esaminate, approvate, firmate?
Le porte dell’ambulanza si chiudono. L’idea che il corpo rigido e insanguinato di Mike stia percorrendo la città dentro quella attrezzatissima scatola mobile mi precipita in una sorta di vertigine disperata.
La vita è una merda senza senso.
Le auto del sabato sera, imbottite di illusioni, si allineano docili ai semafori, rallentano e ripartono trascinando speranze inutili.
I giardini di Kensington sono ormai un lugubre bosco silenzioso ammorbato dall’umidità. Sparsi qua e là, gli scheletri delle sedie a sdraio disegnano ancora i circoli muti dove sciami di donne velate hanno goduto il giorno.

(1) The Smiths, The queen is dead
(da "L'inutile guida" ed. Progetto Cultura, 2009 - quinta puntata)

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