Chiusi i battenti dell’ultima edizione di Estivaljazz è piuttosto difficile stabilire cosa abbia lasciato dietro di sé la manifestazione di quest’anno: i detriti abbandonati sul campo di Piazza della Riforma dagli ultimi festaioli tiratardi immagino siano stati spazzati con la consueta efficienza svizzera già pochi minuti dopo la fine dell’ultimo concerto. Ammesso che ci fossero molti detriti da spazzare. Perché sabato sera non si è visto l’assembramento brulicante di sempre, niente mondanità, niente mise stravaganti. Sobrietà? A me è sembrato disinteresse.
Diciamo che la formula recente (quella che ha relegato il jazz al ruolo di specchietto per allodole) comincia ad essere stantia. Forse la musica etnica, considerata chissà perché un facile e ballabile surrogato del jazz, giudicata chissà perché più fruibile da un non meglio precisato “pubblico giovane” ha esaurito le sue teoriche potenzialità. E i presunti concertoni delle star di un passato mitico (Wakeman, Anderson, Hackett e via dicendo) spesso lasciano dietro di sé solo una scia di patetico rimpianto per ciò che non è più.
All'ormai leggendaria direzione artistica della rassegna formulo una richiesta chiara e semplice: we want jazz!
Strizzare l’occhio alle soluzioni più facili e commerciali per soddisfare gli sponsor non paga più. Il senso di disorientamento del pubblico è chiaramente percepibile, la mancanza di stimoli da parte della direzione artistica pure: la sensazione generale, quest’anno, è stata quella di una manifestazione concepita e fruita per inerzia. L’unica soluzione a mio avviso è riqualificare la rassegna, restituirle l’antica, prestigiosa identità di festival jazz.
3 commenti:
Non so se attribuire anche questo risultato alla progressiva insensibilizzazione verso la musica ricercata.
Troppa immagine legata alla musica, troppo ascolto distratto della musica, troppi mezzi d'ascolto non adeguati per fruire della musica (la percezione sonora non è l'unico elemento di fruibilità: le cuffiette non trasemttono vibrazioni o frequenze non distintamente percepibili la fisicamente presenti ed attive).
Questo lo penso da sempre e posso dire che mi aspettavo queste conseguenze.
a milano, nella rassegna di jazz all'arena, quest'anno ci hanno messo pure i simple minds e la notte della taranta!
Ah, ma allora è un vizio 'sta notte della taranta! Peggio del prezzemolo!
Scherzi a parte è difficile capire dove stia veramente il problema: ho pensato anche che fosse una questione legata al budget, visto che i principali sponsor della rassegna sono sempre state le banche e in questo momento gli istituti bancari svizzeri non se la passano benissimo - vedi tanto per dirne una il processo in corso fra Dipartimento di giustizia statunitense e UBS a proposito del segreto bancario ma i problemi sono anche altri - e però non mi sembra una ragione sufficiente.
Voglio dire: c'è una quantità di ottimi musicisti jazz che si precipiterebbero sul palco di Piazza della Riforma per un cachet molto più basso di quello elargito a Steve Hackett.
E' un segno dei tempi, direi: grande confusione, incertezza, stanchezza, indecisione. L'unica lezione che si può trarre da questo strano periodo di transizione, secondo me, è essenzialmente l'urgenza di un ritorno alla qualità. Ormai è un dato di fatto - a livello macro come a livello micro - che la quantità e l'abbondanza spesso celano solo il vuoto.
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