lunedì 13 luglio 2009

Vale e gli altri

Sotto la visiera del berretto rosso, Vale nasconde un broncio da bambino e le guance acneiche di un adolescente; è uno sguardo corrucciato, quello che filtra da sotto la visiera, uno sguardo che ci esamina dall’alto in basso. Poi improvvisamente Vale raccoglie da sotto la panchina una minuscola foglia secca e me la porge. Cavallerescamente, il bluesman accoglie il dono al posto mio e ringrazia. Ma Vale con destrezza reperisce e deposita nella mia mano una cartina di caramella accuratamente ripiegata. Non so esattamente se si tratti di un gesto amichevole, visto l’ostinato cipiglio dell’offerente; ma è difficile pensare a un gesto di disprezzo, anche quando Vale, dopo aver rassettato il suolo con le dita, raccoglie e porge solo un minuscolo, insignificante granello di terra.

Ci troviamo a Lugano, nel cuore di un incantevole parco che lambisce il lago. Ovunque è un tripudio di fiori, vialetti lindi e panchine impeccabili affondate in aiuole sgargianti: ogni particolare è studiato per non infrangere le esili coordinate della bellezza. Tutti i cani sono al guinzaglio ed è un placido, democratico andirivieni di individui i più diversi fra loro per origine, lingua, religione, ceto sociale. Giovani musulmane nascoste sotto lunghi soprabiti chiari, gruppetti di gay azzimati del tipo D&G, pensionati tedeschi, donne sole ed eleganti, coppiette francesi, bimbette in sari luccicanti, tutti hanno diritto alla loro parte di bellezza, alla gita in battello, al gelato, alla foto di rito, purchè ogni cosa si svolga con misura, senza eccessi, nel rispetto delle regole di una pacifica convivenza.

Vale parla, anche. Le uniche due parole che ci rivolge sono tentati riferimenti all’auto che l’ha portato lì e al modellino di trattore con cui giocherella. Vale pensa, indubbiamente. Pensa con lentezza, ma di sicuro pensa. Forse semplicemente non ritiene necessario comunicare quello che ha nella testa, forse non è certo di poter essere ben compreso.
Probabilmente Vale non realizza che attorno a lui in questo momento stanno strepitando decine di bambini. I bimbi si divertono tutti nello stesso modo, ridono tutti nello stesso modo; disubbidiscono, frignano, si ostinano a bere l’acqua della fontana: quale che sia il colore della loro pelle – e si va dal bianco latte al nero più nero attraverso ogni possibile gradazione e combinazione – ambiscono tutti agli stessi giochi, comunicano con immediatezza, non hanno bisogno di parole. Sono i genitori a richiamarli in lingue differenti.
Vale e gli altri – perchè Vale non è solo – probabilmente non si accorgono di questo brulicare di altalene e rimproveri e sbrodolamenti attorno alla fontana. Due mondi che si intersecano senza entrare in contatto. La contrapposizione è netta: un mondo spensierato, fatto di gridolini e abitini colorati, e un mondo di bisogni semplici, fatto di corpi imbragati, tutori ortopedici, sedie a rotelle.
Per Vale e gli altri la nostalgia è un lusso. Non possono rimpiangere o desiderare ciò che non hanno mai conosciuto. Vale è il solo, nel gruppo, a muoversi autonomamente: dopo aver osservato i suoi compagni, non mi sfugge la naturalezza con cui ripiega le gambe sulla panchina. Una naturalezza del tutto sconosciuta agli altri ragazzini, nessuno dei quali potrebbe sognarsi di salire sul cavallo a dondolo con le proprie forze. Ben avrà dodici anni, suppongo; indossa pantaloni mimetici e una maglia verde militare, ha i capelli e i lineamenti delicati di un bimbo dell’Est e si produce in un sorriso che allarga il cuore quando riesce a orientare il getto di una fontanella in maniera tale da spruzzare il suo accompagnatore. Quanto all’altro suo compagno, la cui sedia a rotelle è stata avvicinata il più possibile alla fontana, è un successo il solo fatto di raggiungere l’acqua, sentirne la carezza o la violenza del getto. Una felicità così intensa per così poco, verrebbe da dire. Quanto sarà lunga la giornata di un ragazzino come Vale, come Ben o come il “piccolo”, il più colpito della compagnia, quello che da dietro le spesse lenti sembra lanciare occhiate adulte di impazienza?
Penso che questi ragazzi non conoscano la noia. Sono troppo occupati a conquistare anche la gratificazione più elementare per prendere in considerazione la monotonia. Non sono interessati al confronto. Il loro è un orizzonte necessariamente limitato: la malattia, un capriccio della biologia, ha disegnato per loro dei confini forse insuperabili. E all’improvviso mi sembra che la vita – il senso della vita - sia solo una questione di orizzonti, di quali e quanti orizzonti ci sappiamo creare, di quanto in là riusciamo a spingere il nostro sguardo. La vita di questi ragazzi, capisco all’improvviso, non è più monotona di quella di un pensionato che, pur non avendo problemi di salute, si autolimita al proprio giardino o al solito percorso di pettegolezzi paesani. E rivedo, parallelamente, gruppetti di adolescenti, coetanei di questi ragazzi, avvezzi a consumare la noia e i soldi dei genitori arroccati sugli sgabelli di un qualche bar, fra sms e chiacchiere vuote e abiti e capigliature, praticamente indistinguibili gli uni dagli altri. Perché mai dovrei giudicare priva di scopo la vita di una creatura che gode della più piccola conquista, che fa tesoro di un granello di polvere, mentre la gran parte delle persone sane, normali e produttive disprezza coscientemente tempo, salute, forza, bellezza, in una parola, la vita?

Vale condensa per noi il suo pensiero in una contrazione della parola trattore e, nel farlo, lascia planare qualche goccia di saliva sul mio piede, sul mio sandalo sportivo, sulle mie belle unghie laccate prugna.
“Eh, quante storie…che sarà mai: è vomito, no?” aveva risolto pratica l’infermiera napoletana quella notte che avevo allagato lo spazio tra il mio letto e quello di un’altra ricoverata. Che sarà mai, penso, per qualche goccia di saliva. Perché mi ricordo di quando non riuscivo a muovere lo sguardo senza essere sopraffatta dalla nausea, perché mi ricordo di che incubo fossi per il personale paramedico, per le mie compagne di stanza. Perché me lo ricordo bene come dovevo dipendere dagli altri anche per le necessità più elementari. E penso che come Vale e i suoi compagni certo si nasce, ma lo si può anche diventare: in seguito a una malattia, un incidente, un insondabile capriccio del destino.
Lo sai, vorrei dire al “piccolo” se solo potesse capirmi – ma chi può dire se davvero non sia in grado di capirmi? - c’è stata una settimana della mia vita in cui anch’io dovevo essere trasportata in sedia a rotelle. So cosa significa dipendere interamente dagli altri, piccolo. Non so dire come tu ti senta esattamente, ma almeno posso provare a immaginarlo, posso accorciare la distanza che apparentemente e per puro caso ci sta separando.

Più tardi il bluesman ed io andiamo a cercarci un posticino all’ombra dove consumare il nostro semplice pranzo al sacco. Lungo il percorso incrociamo una bimba incantevole, impegnata a spingere il proprio passeggino sotto gli occhi amorevoli dei genitori. Ha i capelli biondissimi, gli occhi azzurri, un profilo impeccabile, un abitino grazioso e scarpine dorate. Un contrasto abbagliante, da spezzare il cuore. Cerco di proiettare il futuro di questa bimba perfetta e, chissà perché, vedo una ragazzina scontrosa, una donna insoddisfatta e autolesionista. Poi penso a Vale, al “piccolo”, alle loro necessità immediate, alla loro notte, a una qualche microscopica, preziosissima conquista che raggiungeranno domani e, se non domani, probabilmente il giorno successivo, o il giorno dopo ancora. Per una creatura che prova felicità al semplice contatto con l’acqua, penso, forse la vita è una miniera di scoperte ed emozioni meravigliose.


2 commenti:

guanabara ha detto...

Fra i tanti difetti ed i pochi pregi del Mondo Occidentale, quello della difesa della dignità e , fin fove possibile, della qualità di vita dei deboli è uno dei punti di forza .
Non so se questa è una conquista stabile, perchè troppe sono le pulsioni alla regressione che attualmente attraversano il nostro mondo.
Se dovesse capitare di perdere anche questo, però, dovremmo risponderne tutti.

fuchsia ha detto...

Incontrando questi ragazzi non ho potuto fare a meno di pensare anche a quanti ragazzi così siano stati uccisi nella Germania nazista. Ovviamente voglio credere che una regressione fino a questo punto non sia mai più possibile né qui né altrove nel mondo. Però l'altro giorno alla radio (ti lascio immaginare di quale emittente si trattasse) è stato un fuoco di fila di telefonate di gente che dava dello "sporco negro", "marocchino schifoso", "lurido marocchino" a un nordafricano che era intervenuto telefonicamente in trasmissione. Ecco, il fatto che ci siano organizzazioni politiche - attualmente al governo - che fanno leva su questo tipo di istinto e lo coltivano e gli danno voce, questo sì fa temere il peggio.