“Cos’è che stai facendo? Un maglioncino per loro?”
Deirdre sospende il lavoro e ti guarda. Sicuramente ti sei introdotto nei suoi discorsi con un argomento a sproposito.
“No, è per me” spiega poi docilmente stirandosi il lavoro sulle gambe, disposta a perdonare la tua distrazione.
Come ha potuto Deirdre commettere un errore così clamoroso? Quel colore non c’entra niente con lei. Quello è uno dei nostri colori, vorresti dirle, mio e delle bambine, non ha niente a che fare con te. Ma ti limiti a tacere, tornando a guardare lo spettacolo offerto da Julia e Chloe che non smettono di cantare e ballare sulla raccolta di singoli dei Depeche Mode.
“Ma ti sembra musica per loro?” osserva a un tratto Deirdre arrestando di nuovo il lavoro.
“L’hanno scelta loro” ti giustifichi come cadendo dalle nuvole “Non vedi come se la stanno spassando?”
Prima o poi ascolteranno anche i miei dischi, è la frase che non pronunci ma che raggiunge comunque tua moglie; Deirdre ti guarda ancora per un attimo, poi allontana da sé ciò che stava per dire e torna a contare i punti sul grosso ago di legno.
Le bambine si muovono con estrema scioltezza; sicure del proprio corpo, del proprio senso del ritmo, provano i movimenti, ne discutono, li ripetono. E tuttavia Chloe subisce la ginnastica a scuola come una condanna, non condivide le lezioni di danza con Julia e si degna di venire a pattinare con te solo per farti un favore. Chloe si è allungata più di Julia in queste ultime settimane, concordate tu e Didi, e i capelli corti la rendono meno bambina. Intuisci in Chloe una sorta di disagio nei confronti dell’infanzia; difficile prevedere l’evoluzione di un’inquietudine così acerba eppure già così evidente.
Lo sguardo di Deirdre ritorna pensoso sulla lana violetta e i suoi lineamenti stanno per disegnare uno di quei malinconici visi irlandesi, asciutti e un po’ aguzzi, che ti devastano di tenerezza. Ma poi, come sempre, il suo sguardo luminoso dissolve ogni malinconia e tu sai di poter contare ancora su di lei e così le tue dita si mettono a ravviarle i capelli dritti e corvini e poi le fai scivolare la testa in grembo usurpando il posto del lavoro a maglia e in un attimo Chloe e Julia ti sono addosso e tu ti metti a recitare tutta la tua stanchezza e la tua voglia di dormire col tono esagerato di un attore tragico e le bambine sghignazzano di felicità e alla fine solo Deirdre riesce a mettere un po’ d’ordine e a convincere le piccole in pigiama ad andare a dormire.
“Teoricamente avrebbero avuto bisogno di un altro bagno… non sono state ferme un minuto” riflette Deirdre facendosi abbracciare. Tu chiudi la conversazione con un bacio e la tua mano scivola sicura a insinuarsi fra le sue natiche.
Gli occhi luccicanti di Deirdre emergono dalla notte come fari bagnati. “Di cosa dovevamo parlare?” chiedono le sue lunghe dita fluttuando sul tuo petto. Devi fare tesoro di questi momenti. Concentrati e assapora ogni dolcezza perché non ci saranno briciole d’amore sparse sul pavimento domattina. La luce del giorno dissolverà queste lenzuola e la lussuosa carrozza di Cenerentola ridiventerà un semplice ortaggio senza vita. Sai bene che le preziose tenerezze di Deirdre non possono essere riprodotte all’infinito come un suono campionato, un gene moltiplicato.
“Di cosa dovevamo parlare?” sussurrano ancora le sue labbra quasi contro le tue. Un’altra di queste esortazioni da bambina viziata e ti verrà voglia di ricominciare tutto da capo.
“Lo sai cosa penso, Steve?” prende respiro sgusciando dalle tue braccia. “Che tu non hai bisogno di nessun antidepressivo.”
“No, è per me” spiega poi docilmente stirandosi il lavoro sulle gambe, disposta a perdonare la tua distrazione.
Come ha potuto Deirdre commettere un errore così clamoroso? Quel colore non c’entra niente con lei. Quello è uno dei nostri colori, vorresti dirle, mio e delle bambine, non ha niente a che fare con te. Ma ti limiti a tacere, tornando a guardare lo spettacolo offerto da Julia e Chloe che non smettono di cantare e ballare sulla raccolta di singoli dei Depeche Mode.
“Ma ti sembra musica per loro?” osserva a un tratto Deirdre arrestando di nuovo il lavoro.
“L’hanno scelta loro” ti giustifichi come cadendo dalle nuvole “Non vedi come se la stanno spassando?”
Prima o poi ascolteranno anche i miei dischi, è la frase che non pronunci ma che raggiunge comunque tua moglie; Deirdre ti guarda ancora per un attimo, poi allontana da sé ciò che stava per dire e torna a contare i punti sul grosso ago di legno.
Le bambine si muovono con estrema scioltezza; sicure del proprio corpo, del proprio senso del ritmo, provano i movimenti, ne discutono, li ripetono. E tuttavia Chloe subisce la ginnastica a scuola come una condanna, non condivide le lezioni di danza con Julia e si degna di venire a pattinare con te solo per farti un favore. Chloe si è allungata più di Julia in queste ultime settimane, concordate tu e Didi, e i capelli corti la rendono meno bambina. Intuisci in Chloe una sorta di disagio nei confronti dell’infanzia; difficile prevedere l’evoluzione di un’inquietudine così acerba eppure già così evidente.
Lo sguardo di Deirdre ritorna pensoso sulla lana violetta e i suoi lineamenti stanno per disegnare uno di quei malinconici visi irlandesi, asciutti e un po’ aguzzi, che ti devastano di tenerezza. Ma poi, come sempre, il suo sguardo luminoso dissolve ogni malinconia e tu sai di poter contare ancora su di lei e così le tue dita si mettono a ravviarle i capelli dritti e corvini e poi le fai scivolare la testa in grembo usurpando il posto del lavoro a maglia e in un attimo Chloe e Julia ti sono addosso e tu ti metti a recitare tutta la tua stanchezza e la tua voglia di dormire col tono esagerato di un attore tragico e le bambine sghignazzano di felicità e alla fine solo Deirdre riesce a mettere un po’ d’ordine e a convincere le piccole in pigiama ad andare a dormire.
“Teoricamente avrebbero avuto bisogno di un altro bagno… non sono state ferme un minuto” riflette Deirdre facendosi abbracciare. Tu chiudi la conversazione con un bacio e la tua mano scivola sicura a insinuarsi fra le sue natiche.
Gli occhi luccicanti di Deirdre emergono dalla notte come fari bagnati. “Di cosa dovevamo parlare?” chiedono le sue lunghe dita fluttuando sul tuo petto. Devi fare tesoro di questi momenti. Concentrati e assapora ogni dolcezza perché non ci saranno briciole d’amore sparse sul pavimento domattina. La luce del giorno dissolverà queste lenzuola e la lussuosa carrozza di Cenerentola ridiventerà un semplice ortaggio senza vita. Sai bene che le preziose tenerezze di Deirdre non possono essere riprodotte all’infinito come un suono campionato, un gene moltiplicato.
“Di cosa dovevamo parlare?” sussurrano ancora le sue labbra quasi contro le tue. Un’altra di queste esortazioni da bambina viziata e ti verrà voglia di ricominciare tutto da capo.
“Lo sai cosa penso, Steve?” prende respiro sgusciando dalle tue braccia. “Che tu non hai bisogno di nessun antidepressivo.”
* * * * * * * * * * * * * *
Lisbona, settembre 1989
“Steve, datti una calmata e vieni ad ascoltare questi signori che raccontano cose molto interessanti.”
Su una piattaforma leggermente rialzata, dal tavolino del bar dove è seduto, Alex mi fa cenno di raggiungerlo. È in compagnia di una coppia di belgi sulla cinquantina, abbronzantissimi e dal fisico
asciutto, l’abbigliamento sportivo e trasandato di due ecologisti radicali. Anche loro bloccati a terra senza sapere esattamente perché, ci raccontano in un inglese più che discreto che stanno pensando
seriamente di trasferirsi nelle Azzorre. Ogni volta che si apre una falla nel loro vocabolario Alex li soccorre prontamente in francese, e così, per una decina di minuti, almeno, mi lascio deviare dai miei tormenti, e viaggio attraverso crateri gorgoglianti, in mezzo a vapori che sprizzano dal sottosuolo, lungo vallate azzurre di ortensie. I racconti dei naviganti in barca a vela mi scaraventano ad un tratto in un abisso di tempeste e abbandono, mentre Alex e i belgi sorridono, sempre più lontani da me, e chiacchierano senza voce e scivolano via lenti, trascinati dalla corrente.
“Tu non lo faresti un lavoro del genere?” Uno zoom da vertigine mi riavvicina alla camicia consumata di Alex, le righine sottili - verde acqua e marrone, verde acqua e marrone - sbiadite in un disegno vecchio di almeno un secolo.
“Come dici, scusa?”
“Il seppellitore di stufati di carne e verdure…”
“Seppellitore di che?!!!”
Indifferente alla mia distrazione, la testa abbandonata sulle braccia conserte, Alex mi spiega nei dettagli, con stupefacente dovizia di particolari, come si prepara lo stufato che viene poi calato nelle profondità ribollenti della terra per essere sottoposto ad una cottura sotterranea di cinque ore.
“Ci mettono pollo, carne di maiale, di vacca, lardo…”
“Ma per favore, mi sta venendo da vomitare!” Mi alzo disgustato spingendo indietro la sedia in un fragore metallico e, mentre mi allontano desiderando solo di ricongiungermi ai consueti tormenti, sento Alex sghignazzare senza pietà e poi confessare ai belgi, ridendo: “Siamo vegetariani convinti…”
Il tabellone delle partenze non dà segni di vita, per quanto ci riguarda. Numerose destinazioni non sono raggiungibili per motivi che vengono genericamente definiti tecnici e l’aeroporto comincia a brulicare di viaggiatori frustrati e annoiati. Ho completamente perso di vista Gordon e gli altri: la nostra prima volta in Brasile sta iniziando fra i peggiori auspici, degno epilogo di un’estate disastrosa.
C’è qualche telefono che sia sfuggito alla mia attenzione? Mi sembra di averli passati in rassegna tutti, ormai, in ossequio ad una invincibile superstizione per cui un apparecchio potrebbe rivelarsi più fortunato di un altro e schiudermi miracolosamente un canale di comunicazione con Corinne. Mi è rimasta una manciata di monetine a malapena sufficienti a stabilire un contatto: se Corinne si decidesse a rispondere mi ritroverei come un idiota col ricevitore in mano e una frase, magari proprio la frase decisiva, mozzata in bocca. Ma vale comunque la pena di provare.
“La vuoi smettere di tormentare quella ragazza?”
Alex si è materializzato alla mia sinistra, appoggiato alla parete, le mani ficcate nelle tasche dei jeans martoriati, e la voce e l’espressione del viso non sono certo quelle del tizio che mezz’ora fa se la stava spassando con due sconosciuti davanti ad un bicchiere di birra.
Riaggancio sentendomi un idiota. “Hai idea di dove siano finiti gli altri?” chiedo ostentando disinvoltura, recuperando le mie preziose monetine portoghesi.
Alex non risponde e mentre conto gli spiccioli sento i suoi occhi su di me, duri come pietre.
“Lo sai, invidio molto la tua capacità di stare a galla” dichiaro provocatoriamente a un tratto, senza più evitare il suo sguardo. Indifferente, lui abbozza stringendosi nelle spalle. “Si chiama abitudine” spiega cinico. “È che conosco solo quella versione, vedi: non mi è mai capitato di lasciare qualcuno, ho sempre fatto la parte di quello che viene lasciato.”
“Quanto a questo siamo pari” affermo risoluto, sentendo di recuperare terreno.
Alex si stacca dalla parete, svogliato, indeciso. Non so cosa darei per sapere cosa gli sta passando per la testa. Ho nostalgia di Corinne. Ho nostalgia delle nostre notti: io, lei e Alex in giro per locali, oppure seduti sui gradini di casa a contare lucciole e pipistrelli.
Quand’è che te la scopavi, Alex, la mattina mentre dormivo? Era da te che veniva tutte le volte che usciva da sola? Me lo dirai un giorno, avrai il coraggio di spiegarmi di cosa era fatta veramente la vostra relazione?
“Corinne era malata” dichiara Alex osservando chissà cosa davanti a sé. Deve aver avvertito il mio urlo silenzioso, tutta la rabbia e l’angoscia che mi stanno divorando l’anima, perché aggiunge subito: “Non facevamo niente di speciale, sai? Si può dire che siamo stati più spesso al cinema che a letto.”
“È per questo che Corinne ha lasciato la Francia per Londra, dunque, solo per andare al cinema… una spiegazione quanto meno originale.”
La mia provocazione non lo sfiora minimamente: è il film della nostra storia con Corinne che gli sta passando davanti agli occhi ora. “Corinne aveva un sacco di problemi” prosegue scuotendo la testa “tutte quelle paranoie sul sesso, ad esempio…”
“Non mi dire che te ne sei accorto anche tu” ribatto acido.
“Il tuo errore è stato assecondarla.”
“Era quello che lei voleva da me.”
“Ho solo cercato di farle capire che non c’era niente di sporco nel sesso, niente di sbagliato.”
“Insomma mi stai dicendo che con me viveva il lato malato della storia e con te invece quello sano.”
Con il rapido gesto che conosco bene, Alex libera il viso di un paio di ciocche contorte.
“Credo si possa dire così” mi conferma dopo una breve riflessione, degnandomi dei suoi begli occhi taglienti.
“Bene” concludo automaticamente, stupidamente, sentendomi quasi svenire.
L’invito inatteso a bere qualcosa insieme, unito a una vigorosa stretta sul mio avambraccio sinistro, mi impedisce di cedere alla disperazione. Avvistiamo un paio di posti liberi nel solito bar e ne approfittiamo rapidamente.
“Né io né te le abbiamo chiesto di andarsene” sentenzia Alex abbandonandosi contro lo scomodo schienale metallico. “Avrebbe potuto scegliere tra noi due. Invece lei ha scelto di andarsene.”
Quello che Alex non riesce a capire è che io temo che Corinne sia capace di qualunque cosa.
“È così fragile…” provo ancora a giustificarla.
“Steve, non puoi sentirti responsabile delle scelte degli altri” mi interrompe deciso, poi concentra uno sguardo malinconico sulle mie mani e, scuotendo leggermente la testa aggiunge: “Forse abbiamo visto in lei qualcosa che in realtà non c’era, voglio dire...forse era solo una ragazzina viziata e immatura.”
Io continuo a sentirmi responsabile della sua fuga e delle conseguenze che questa fuga avrà sulla sua vita. Forse avrei dovuto fingere di non sapere di lei e Alex,mi sarei semplicemente dovuto fare carico di quella parte di sofferenza, forse il mio sacrificio sarebbe servito.
“Diciamoci la verità” Alex si stropiccia gli occhi con l’aria di uno che non ne può più. “Sapevamo perfettamente che il ménage à trois non avrebbe mai funzionato.”
Mi sta ribaltando addosso le stesse parole che proprio io gli ho ripetuto per mesi fin dai primi giorni del suo arrivo a Londra, quando, cercando casa, si era imbarcato in una storia assurda con la titolare dell’agenzia immobiliare, una specie di donna in carriera sposatissima che avrebbe potuto essere sua madre.
Sconsolato, Alex abbandona la testa sul tavolino ancora ingombro dei bicchieri sporchi di chissà chi.
L’ultima cosa che desidero in questo momento è partire per il Brasile. Non so davvero dove troverò la forza di fare tutto ciò che si ci si aspetta da me. Forse avremmo fatto meglio a cancellare tutto.
“Gordon ti avrebbe ammazzato” dice Alex sollevando uno sguardo assonnato.
Non so. La Svizzera, ecco, penso che in questomomentomi consolerebbe viaggiare per la Svizzera. Ho riletto da poco qualche pagina di Frankenstein e mi è rimasta addosso la voglia di quelle montagne nitide, di quei laghi limpidi, fiabeschi. Deve pur esserci qualcosa di potente in quei luoghi se hanno affascinato Shelley e Byron.
Alex sembra considerarmi qualche secondo col più profondo disprezzo. “Cosa pensi di trovarci da quelle parti, oltre a una quantità di gioiellerie e farmacie?”
Nessuno riesce a spiazzarmi come Alex. “Le farmacie possono essere molto interessanti” recupero, preparandomi a un nuovo duello.
“Non farti illusioni, senza ricetta non ti sganciano neanche la polvere del pavimento, ammesso che ce ne sia.”
“Sei molto esperto, vedo…”
“Ci sono cresciuto, da quelle parti.”
“Cosa vuol dire, scusa? Non sei cresciuto in Francia?”
Alex scuote la testa inghiottendo l’ultimo sorso di birra. “Collegi svizzeri” butta lì. “Quel genere di cose...”
“E come mai?” azzardo dopo un istante di incertezza.
“Un’iniziativa di mio padre, suppongo…”
Devo giocarmi bene le domande perché sento che la partita sta per chiudersi.
“I tuoi hanno divorziato?”
“Stammi a sentire” comincia con aria definitiva, scuotendosi via briciole inesistenti dai pantaloni. “Mio padre non l’ho mai neanche visto in faccia e mia madre deve aver trovato di meglio e se n’è andata via che ero ancora piccolo. Questo è quanto.”
La conversazione è destinata ad estinguersi. Non c’è molto da aggiungere, in effetti.
“Beh, comunque quei laghi mi piacerebbe vederli” concludo con calcolata indifferenza.
“Io li odio i laghi. Mi fanno pensare alla morte.”
Credevo di non avere rivali in materia di fantasie macabre. Benvenuto nel mio castello di incubi, Monsieur Ducrey.
“E comunque questa birra fa veramente pisciare… in tutti i sensi, intendo” accenna col capo al bicchiere vuoto mentre si alza con lenta rassegnazione. Poi, senza aggiungere altro, mi abbandona.
(da "L'inutile guida" ed. Progetto Cultura, 2009 - ottava puntata)