Sono solo io dunque a diffidare delle apparenti dolcezze della primavera? Solo io percepisco l'inquietudine che serpeggia in tanta vistosa abbondanza?
Ma no, anche Sylvia Plath è sulla mia lunghezza d'onda. Ecco cosa scrive il 19 aprile del 1962:
"Mi terrorizza questa cosa scura
che dorme in me;
tutto il giorno ne sento il tacito rivoltarsi piumato, la malignità"
E un mese dopo, in un "luogo di forza" dove la natura non si trattiene:
"Sentii in bocca la malignità della ginestra,
i suoi aculei neri,
l'estrema unzione dei suoi gialli fiori-candela.
Avevano un'efficienza, una grande bellezza,
ed erano esagerati, come una tortura."
Solo un ingenuo potrebbe rilassarsi e godere di questa campagna placida e grassa:
"L'assenza di grida
apriva un buco nel giorno ardente, un vuoto."
E di nuovo se la prende coi papaveri, Sylvia, che già aveva accusato di essere troppo rossi.
"Piccoli papaveri, piccole fiamme d'inferno,
non fate male?
[...]
E mi spossa il guardarvi
così tremolanti, grinzosi e rosso vivo, come la pelle di una bocca"
I poveri papaveri che ormai per me significano solo la snervante attesa della prostituta sul ciglio della tangenziale.
Ho consumato dunque tutta la mia dose di onesto e ingenuo candore? O non ne sono mai stata provvista in modo adeguato?
1 commento:
i papaveri per me sono quelli tra i binari della ferrovia, ma certo anche lì lo struggimento è assicurato.
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