"[...]Riscontriamo una perfetta identità tra il Wilde delle favole e il Wilde di De Profundis. […]
Le favole costituiscono [...] una teoria di esempi – di conferme – dell’inutilità sociale e dell’incapacità eversiva del sacrificio. E ne mostrano la funzione d’ordine catartico a vantaggio esclusivo di chi lo compie. Come il figlio di Dio, che non viene compreso dagli uomini, ma verrà esaltato dal Padre, così the Happy Prince, dopo essersi privato dell’ultima lamina d’oro e persino degli occhi, verrà prescelto per lodare Dio in the city of gold.[…]
Fino all’ultimo Wilde giocò con le idee, recitò con le emozioni. Riteniamo anche noi «che si potrebbe chiamare la seconda leggenda di Oscar Wilde [quella] secondo la quale un cinico di spirito, ma superficiale, fu trasformato dalla sofferenza in un martire pensoso»(Barzun). Perché Wilde non subì alcuna conversione. Non venne affatto “trasformato” dalla sofferenza: essa era già ben presente e radicata nel suo spirito al tempo della composizione delle favole. E anche perché Wilde non fu mai superficiale, ma sempre e soltanto l’artista che della sofferenza – non importa se di Cristo, dei protagonisti delle favole o sua personale – volle e seppe cogliere solo il lato artistico-estetico, la bellezza. E questo, che lo si giudichi un limite o un grande pregio, costituisce comunque l’asse portante della sua concezione etica.
[…] Pur se filtrata attraverso il sintetico linguaggio infantile, la concezione wildiana (secondo la quale il sacrificio di Cristo è una cosa bella) emerge dunque chiaramente e appare in sintonia con lo schema desumibile da De Profundis. Opera in cui Wilde stesso ammette: «Questa vita nuova[…] non è naturalmente affatto una vita nuova, ma semplicemente il seguito, per via di sviluppo e di evoluzione, della mia vita precedente». Tutto era già «adombrato e prefigurato» nelle precedenti opere. «Ce n’è qualcosa in The Happy Prince», aggiunge l’artista, «qualche cosa ancora in The Young King, particolarmente nel passo in cui il vescovo dice al ragazzo inginocchiato: “Is not He who made misery wiser than thou art?” ». Ma si tratta di una frase che «quando la scrissi mi appariva poco più di una frase».
Quest’ultima precisazione chiarisce forse il senso circa l’equivoco della trasformazione del cinico in martire pensoso. In sostanza parrebbe che il cinico avesse già scritto, senza comprenderlo pienamente, ciò che poi il martire pensoso avrebbe in toto sottoscritto, una volta subita (cercata, voluta) l’esperienza catartica della sofferenza."
Franco Buffoni, in "Carmide a Reading", Edizioni Empirìa 2002
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