venerdì 18 settembre 2009

Capitolo 1 "Holles Street" - seconda puntata

A Dublino è un qualsiasi giorno di settembre e nessuno sa che ieri una giovane donna ne ha avuto abbastanza.
In fondo alla gola ti è rimasto un grumo di amarezza ma stai mantenendo la calma in modo ammirevole mentre ti destreggi nel traffico sulla tua bicicletta veloce. Benché nessuno sembri aver fiducia nel suo risveglio dal coma e Mrs Brennan parli di lei come se fosse già stata sepolta, di fatto Lynn è rimasta ancorata al mondo dei vivi ed è a questo pensiero che ti aggrappi per tenere a bada il senso di colpa.
Accanto all’ingresso del pub, qualche gradino sotto il livello della strada, una ragazza lascia cadere a terra un vecchio zaino logoro e osserva affranta la bicicletta appoggiata al muro; poi, rassegnata, si toglie il casco.
Bloccato a un semaforo, fai deviare automaticamente la bici sul marciapiede.
“Problemi?”
La ragazza si volta di scatto, sorpresa: tu noti subito gli occhi di un castano profondo, la pelle olivastra e perfetta. Sembra un tipo cordiale e vivace e si esprime precipitosamente in un ottimo inglese dall’accento straniero.
“È una cosa da niente” è la tua diagnosi. “Due minuti e te la sistemo.”
Che piacere insolito poter essere rassicuranti per qualcuno, ogni tanto. Problemi così banali che si risolvono meccanicamente, si piegano ai tuoi gesti esperti. Ecco, tutti gli ingranaggi ubbidiscono docili, ora, ma l’inflessione ondeggiante che affiora qua e là nei discorsi rapidi della ragazza resta inclassificabile. “Posso offrirti qualcosa da bere?” chiede ansiosa di ricambiare.
“Non è il caso, davvero” replichi semplicemente mentre con uno straccio ti togli l’eccesso di grasso dai guanti.
“Non ti sei neanche sporcato le mani” osserva lei con un sorriso.
“È solo l’abitudine” e nascondi in fretta straccio e guanti dentro il borsino nero degli attrezzi.
“Sei sicuro di non voler bere qualcosa con me? Mi farebbe piacere, giusto il tempo di una birra…”
Forse il tuo gesto, lo scatto fulmineo che ti ha fatto impugnare d’istinto il manubrio deve averla illuminata. Ragazza sveglia: ha già capito tutto quello che c’era da capire.
“D’accordo” si riprende dopo un brevissimo smarrimento. “Ti andrebbe un succo di qualcosa qui fuori?”
Arrenditi. Parlare un po’ ti farà bene, servirà a farti stare coi piedi per terra. “Anche i succhi di qualcosa sono banditi dalla mia dieta” dici sedendoti sui gradini “ma un caffè nero lo posso accettare.”
Un vento freddo e insistente ha radunato una quantità adeguata di nuvole pronte per la prossima pioggia e, alle tue spalle, le auto scorrono senza sosta sopra il tuo dolore segreto.
“Tu non sei irlandese, vero?” chiedi alla ragazza prendendole dalle mani la tazza fumante.
“Da cosa si capisce? Dall’aspetto o dall’accento?”
“Fondamentalmente dal fatto che tu non hai notato il mio accento londinese. Mi piace quando la gente se ne accorge, a volte esagero di proposito.”
“Spiacente di deluderti” scuote la testa divertita. “Non ci ho proprio fatto caso. Così sei anche tu uno straniero?”
Portoghese. Ecco da dove viene questa cadenza anomala che qua e là si illumina di colore: perché non ci hai pensato subito?
“Non so proprio come ci sei arrivato…” dice guardandoti piena di rispetto e sorpresa, come se avessi risolto un enigma impossibile.
“Un tempo avevo una specie di ossessione per le lingue” spieghi sentendo montare l’imbarazzo. “Parlavo correntemente tutte le principali lingue europee. Mi divertiva imparare. Il portoghese ho cominciato a studiarlo la prima volta che sono stato in Brasile, anche se c’è una differenza abissale fra il brasiliano e il portoghese, voglio dire il brasiliano è molto più gradevole da ascoltare, più comprensibile, sei d’accordo anche tu, vero? In ogni caso è una lingua stupenda, lo penso davvero…”
Il castello complicato della tua vita si sta stagliando dietro di te come un’ombra inestricabile: vedi di non metterti nei guai. Non ti sembra di esagerare con le confidenze? Finirà per pensare che ci stai provando. Fortunatamente la sua voglia di raccontare ha subito il sopravvento sulle tue ciance inutili. Sotto quell’aria trasandata e ingenua da studentessa squattrinata si nasconde incredibilmente un medico, “specialista in ostetricia e ginecologia” sottolinea lei con una punta di orgoglio; pochi tratti essenziali nelle sue parole bastano a delineare rapidamente una personalità forte e appassionata.
“Scusa, per caso lavori a Holles Street?” la interrompi a un tratto, inspiegabilmente pieno di speranza.
“Conosci Holles Street?” chiede lei sbarrando due enormi occhi luminosi di felicità.
“È dove sono nate le mie bambine, due gemelle, sette anni il mese prossimo, compiamo gli anni lo stesso giorno, sai?”
A giudicare dalla sua reazione si direbbe che non abbia mai ricevuto notizia più esaltante in tutta la sua vita. “Adoro aiutare degli esseri umani a venire alla luce” confessa poi abbracciandosi le ginocchia. “Il mio lavoro è davvero meraviglioso…” Poi si lancia a spiegarti la sua carriera dagli inizi, le grandi speranze e la fatica, le delusioni e tanta voglia di imparare, il primo incarico importante presso il Pronto Soccorso di un ospedale su un’isoletta in mezzo all’oceano. “Hai presente dove sono le Azzorre?”
Sì, hai presente dove sono le Azzorre: ci puoi appoggiare sopra il piede se stai scavalcando l’Atlantico per raggiungere l’America. Certo che hai presente dove sono le Azzorre: sono anche in un posticino invisibile nel tuo cuore, al sicuro, in un angolo dove non possono procurare dolore.
“Infine la mia domanda qui presso il Maternity Hospital è stata accettata e così mi sono trasferita un’altra volta. I primi tempi sono stati durissimi: non conoscevo nessuno, mi rifilavano turni estenuanti, ma ne è valsa la pena. È stato difficile prendere il ritmo. Ti lascio immaginare l’ebbrezza di tornare a casa in bicicletta sotto la pioggia, magari all’alba o a notte fonda, dopo ore in sala operatoria: non potevo certo permettermi di comperare un’automobile…fortunatamente mio padre ha pensato di portarmi qui la mia auto…”
“Cosa ha fatto tuo padre?” trasalisci come colpito da un’ingiuria.
“La mia auto…” ripete lei perplessa. “Lui ha guidato fino in Francia, da lì si è imbarcato su un traghetto per l’Irlanda, poi è tornato in Portogallo in aereo. Tu non lo faresti per le tue figlie?”
Sei rimasto senza parole, come sempre in circostanze analoghe. Per Julia e Chloe non esiteresti ad affrontare l’oceano a nuoto, ma non ti sei mai abituato a pensare a te stesso nel ruolo di padre. Il termine padre, per te, indica da sempre un concetto astratto. È un vocabolo inconsistente, una voce muta, e continui regolarmente a stupirti ogni volta che questa parola viene associata ad un individuo in carne ed ossa, un individuo che parla, sceglie, agisce. Un individuo che ama. Ma è inutile provare a spiegare, è sempre stato inutile, ed è tanto più inutile ora che non c’è più nessuno in grado di capire. Quando ti accorgi che la conversazione è ancora lì bloccata, in attesa che il tuo dito smetta di percorrere nervosamente il bordo della tazza color mattone, ti rivolgi alla ragazza con un breve sorriso. C’è qualcosa in lei che ti ricorda tua moglie: l’esuberanza, la schiettezza. Il coraggio, anche. Glielo dici subito, tanto per sgomberare il campo da qualsiasi equivoco.
“Tua moglie è irlandese?” si informa lei riprendendo il tono spigliato di prima.
“Completamente”
“Lo dici come se fosse una minaccia.”
“In un certo senso…” Ridi. “Ha esattamente tutti i pregi e i difetti che si attribuiscono di solito agli irlandesi. È una tipa tosta, voglio dire, è una che sa quello che vuole e riesce ad ottenerlo, e io l’ammiro molto per questo, per la sua forza di volontà, la sua determinazione. Non potremmo essere più diversi” ridi ancora e infili lo sguardo dentro la tazza vuota. “Un ingegnere informatico con un’autentica passione per il lavoro a maglia. Mia moglie è la donna più strana che abbia mai conosciuto: è una a cui piace mettere ordine nel caos; le piace avere dei problemi da risolvere…”
“È per questo che ti ha sposato?”
La battuta era facile, anzi, sei stato tu a fornirgliela bell’e pronta per essere pronunciata; in ogni caso è evidente che ormai sei stato inquadrato per quello che sei.

La dottoressa portoghese si passa una mano sui capelli raccolti. Potrebbe essere molto carina senza quella crocchia da sartina vittoriana sopra la nuca.
“Mi piace questo paese” dichiara dedicando uno sguardo luminoso alla volta del cielo ora parzialmente sereno.
“Non è male” confermi. “All’inizio credevo che sarei impazzito. Quando sei abituato a Londra, Dublino ti sembra un villaggetto che puoi misurare con lo sguardo. Basta che entri due volte nello stesso negozio e già si ricordano di te. E poi l’isola è così piccola: stendi le braccia e ne tocchi le estremità. Davvero, all’inizio pensavo che avrei dato la testa nel muro.” Rigiri la tazza fra le mani. “Ma questa è una cosa che si pensa spesso nella vita, poi, in un modo o nell’altro, ci si abitua a tutto, non è così?”
“Certo il clima è terrificante” osserva lei scansando la tua malinconia, lo sguardo vivace di una che non si arrende mai.
“In realtà ho scoperto che ha i suoi lati positivi - l’estrema variabilità, voglio dire - è assolutamente positiva se sei un depresso cronico come me - no, non ridere, è vero, lo sono davvero - hai sempre la speranza che di lì a mezz’ora possa spuntare il sole, è questa idea di movimento che mi piace, il vento che ti spinge sempre da
qualche parte, il cielo che non si ferma mai… E poi un clima del genere ti insegna a non aspettarti mai niente: niente di buono e niente di male. Anche questa è una buona cosa, è molto educativo, insomma.”
Il paese umiliato che hai conosciuto un tempo, intriso di pioggia e miseria, sembra essere stato cancellato da un colpo di spugna. Le tue figlie sono nate in un tempo benedetto dalla pace e speri che non debbano mai conoscere limitazioni alla propria libertà personale. Auguri loro di crescere in una terra libera da confini assurdi, priva dei minacciosi posti di blocco che ricordi bene.
Ti accorgi a un tratto che lei ti sta osservando con una sorta di tenera compassione. “Avevi l’abitudine di viaggiare molto?” chiede, inevitabilmente, dopo un lungo silenzio durante il quale deve aver riconsiderato i tuoi precedenti accenni al Brasile e alle lingue del mondo. Cerchi di compattare il tuo passato di musicista in pochi termini vaghi e generici; entrare nei dettagli non ha senso, quei dettagli non esistono più. “In ogni caso sono felice che le mie figlie siano nate qui” riprendi facendo virare la conversazione verso acque tranquille. “È diventato un buon posto per farci crescere dei bambini.”
Lei concorda e sigilla con un sorriso quella parentesi ambigua mentre tu, per un istante, ti lasci rapire dal ricordo di un autunno irripetibile a Herbert Park, con le bambine che imparavano a camminare attorno alle aiuole scintillanti e la tua anima che cominciava finalmente a respirare, ossigenata da una speranza nuova, tra il
profumo dell’erba appena tagliata.
“Vengo spesso da queste parti con le bambine: adorano giocare nei giardini di Merrion Square. Il loro gioco preferito è fare lunghe conversazioni con Oscar Wilde.”

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