venerdì 25 settembre 2009

Capitolo 1 "Holles Street" - terza puntata

Da quando hanno scoperto che il curioso personaggio sdraiato su un enorme masso in un angolo del parco è l’autore di quelle fiabe che non si stancano mai di ascoltare dalla tua voce magica, Julia e Chloe hanno stabilito con la statua di Oscar Wilde un filo diretto di confidenze.
“Sono arrivate al punto di mostrargli ogni nuovo disegno ispirato alle fiabe” e ripensi con orgoglio allo splendido usignolo dal cuore trafitto che Chloe ha disegnato e colorato con una maturità stupefacente in una bambina che non ha ancora compiuto sette anni.
“Ha dimenticato completamente la rosa” rifletti ad alta voce “si è concentrata solo sulla spina che affonda nel cuore dell’usignolo” e rivedi nitidamente la tensione coraggiosa che Chloe ha saputo infondere al corpicino stremato dell’uccellino.
“Sicuro che sia una fiaba per bambini?”
Guardi la dottoressa portoghese come se fosse un’estranea materializzatasi all’improvviso al tuo fianco: com’è possibile che non conosca la fiaba dell’usignolo e della rosa?
“Perché non dovrebbe essere un racconto adatto ad un bambino?” la provochi dopo averle riassunto brevemente la storia. “Non insegna forse il valore del sacrificio? Non è quello che le bambine si sentono ripetere ogni domenica a Messa?”
“Le porti a Messa tutte le domeniche?”
“Per espresso desiderio della loro madre che desidera siano educate secondo i principi della Santa Chiesa Cattolica.”
“Sbaglio o c’è un po’ di ironia?”
Alzi le spalle, indifferente: “Io sono un prodotto di quel tipo di educazione. Di certo non potrei propagandarne i benefici.”
Lei ride. “Non ti conosco abbastanza per poter giudicare. Per quanto mi riguarda, direi che la parabola del buon samaritano non te la sei dimenticata.”
No, le parabole non te le sei dimenticate, e ci sono passi del Vangelo che potresti ripetere a memoria. “Mi piacciono le guarigioni, le resurrezioni, il cieco nato, Lazzaro, la donna che tocca il mantello di Gesù in mezzo a tutta quella folla e lui che se ne accorge, non è bellissimo?” Se tu fossi un prete non troveresti mai le parole giuste per spiegare quel passo del Vangelo: dovresti ricorrere alla poesia, qualcuno direbbe che sei blasfemo.
“Ma non c’è niente di blasfemo nell’amore, non credi?”
Lei ti sta osservando intenta, curiosa di sapere dove vuoi andare a parare. “Voglio dire” riprendi, sperando di trovare le parole giuste “c’è qualcosa di profondamente poetico in quel passo del Vangelo: è l’amore quello che ha raggiunto, che ha afferrato Gesù con la forza assoluta della disperazione...”
“Forse la fede” obietta lei.
“Fede e amore non sono la stessa cosa? Può esistere l’una senza l’altro?” reagisci istintivamente. “Voglio dire: quello che mi colpisce è quella corrente sotterranea d’amore, quell’intesa misteriosa…ciò che unisce Gesù a quella donna è la stessa energia segreta che scorre fra due estranei che all’improvviso si riconoscono l’uno nell’altro…Non è quello che chiamiamo amore? No, qui non c’è nulla di blasfemo, voglio dire, è solo per amore che Gesù compie i miracoli, per quale altra ragione?”
“È interessante parlare con te” dice pensierosa la dottoressa portoghese, come se ti osservasse da una diversa prospettiva. Hai fatto male a confidarti, cosa ne sai che non è anche lei una di quelle che si inginocchiano al confessionale e rovesciano dentro la grata la lista precisa e puntuale dei propri peccati?
“Cosa ci sarebbe di male in questo?” ride lei accarezzandosi la crocchia sfilacciata dal vento.
“Non so, forse è solo invidia” sospiri con un’altra alzata di spalle.
“Sì, in un certo senso invidio le persone che credono che basti raccontare i propri errori per farli scomparire. Piacerebbe anche a me avere un’anima così facile da spazzare… non che io non abbia un’idea di cosa sia bene e cosa sia male, ma da qui a stabilire con precisione…”
Lascia stare per amor del cielo: ti stai cacciando in un vicolo cieco, stai sconfinando in territori pericolosi. La filosofia non è roba per te, dovresti saperlo, e hai già chiacchierato anche troppo.
Rientra nei ranghi e rimetti tutto in ordine.
È ora di tornare a casa, ormai.
“Chissà, magari ci capiterà di incontrarci ancora” le sorridi diplomaticamente mentre ti muovi per recuperare la tua bicicletta. “Magari la prossima volta che porto le bambine a fare due chiacchiere con Oscar Wilde.”
“Scusami per prima” dice lei ad un tratto tirandosi su la zip del giubbino imbottito “quando ti ho invitato ad entrare a bere.”
“Non potevi mica saperlo” e fingi di cercarti qualcosa in tasca per evitare i suoi occhi.
“Deve essere stata dura venirne fuori…”
“È stata dura anche esserci dentro. Non arrivi a quel punto per il piacere di farlo.”
“Sì, lo immagino” concorda nascondendo pensosa la bocca nel bavero rialzato.
“Credo che lo stadio successivo sarebbe stato farmela addosso mentre dormivo” aggiungi trasportando la bici su per i gradini.
Quel respiro profondo le serve probabilmente per controllare la pena che prova per te. Decidi di risparmiarle il capitolo droga.
“È tutto a posto, adesso? Stai bene?” È lì immobile che aspetta la risposta, con un misto di curiosità scientifica e di coinvolgimento autentico, affettuoso, si potrebbe dire.
“Tutto sotto controllo” ti affretti a ristabilire subito le distanze “Il fegato non me l’hanno rimpiazzato. Forse i miei intrugli macrobiotici sono serviti a limitare i danni.”
“O più probabilmente qualcuno ha pensato che saresti stato molto più utile in buona salute qui su questa terra e ti ha dato una possibilità.”
“Lascia perdere: chi ha il controllo di queste cose mi sembra piuttosto distratto, ultimamente.”
Lei è diretta a nord del fiume, tu invece dovresti imboccare esattamente la direzione opposta, ma all’improvviso la visione del tuo appartamento deserto ti riempie di angoscia, così decidi di accompagnarla per un tratto. L’ingresso del Trinity College offre un rifugio invitante: i viottoli ordinati percorsi dagli studenti ti hanno sempre ispirato vitalità e speranza. Approfittate dell’unica panchina libera e vi sedete a margine del campo col pretesto di assistere alla partita di cricket che si sta svolgendo tra l’indifferenza totale dei passanti. Lei non conosce minimamente le regole del gioco e tu non sei in grado di darle spiegazioni: l’hai sempre giudicato uno sport noiosissimo e assurdo che per qualche strana ragione ti suscita inquietudine. Anche adesso, davanti a quell’ordinamento preciso di forze, nonostante i saggi movimenti dei giocatori, la tua mente scivola indietro verso l’ufficio di Mrs Brennan e il colloquio di poche ore fa. Il gioco di squadra che capitanavi tu non ha ottenuto alcun risultato.
“Lo fai per lavoro?” ti sta chiedendo intanto la ragazza portoghese mentre, due forcine infilate all’angolo della bocca, cerca di ricostruirsi la crocchia distrutta dal vento.
“Ti riferisci al carcere?”
“Stavamo parlando di quello, mi sembra…”
Ti senti all’improvviso un perfetto incapace, indegno persino di educare le tue splendide figlie.
“No, non potrei mai fare l’educatore di mestiere” spieghi allungando un braccio per accarezzare teneramente la corteccia di un albero. “Faceva parte del mio programma di riabilitazione. È così che ho cominciato. Un servizio di volontariato che doveva durare pochi mesi.”
Giorno dopo giorno, difficoltà su difficoltà, hai accumulato anni di esperienza. Non è chiaro chi abbia ricevuto di più, se tu o le detenute alle quali hai cercato di trasmettere il conforto della musica. Quel che è certo è che la tua vita qui in Irlanda si è strutturata essenzialmente su due cardini: le bambine e il carcere. Il lavoro alla radio l’hai sempre vissuto come una sorta di corollario a tutto il resto: le trasmissioni le scrivi di solito la sera, dopo che hai messo a letto le bambine, o quando Julia e Chloe restano a dormire a casa di Deirdre, e comunque sempre dopo aver pianificato le attività del gruppo di detenute cui dedichi almeno tre pomeriggi a settimana. Senza contare il pomeriggio della domenica, un impegno extra che ti sei accollato senza esitazione.
“Secondo te ci sono speranze che Lynn si riprenda?” chiedi cercando di dominare il battito furioso del cuore.
La ragazza sposta lo sguardo sulle tue dita che stanno ormai percorrendo un pezzo di corteccia con nervosa regolarità. “È difficile dirlo… dipende da troppi fattori.”
Come temevi. Sembra che sia il tuo destino, più che quello di Lynn, ad essere appeso ad un filo inafferrabile.
Gli arbitri, intanto, hanno deciso la sospensione dell’incontro di cricket: il seguito, probabilmente, domani.
“È stato davvero un piacere conoscerti, Steven.” Serena e sorridente, la dottoressa portoghese ti sta tendendo la mano con uno strano piglio maschile, militaresco, quasi: deve essere il suo modo di esercitare il controllo sulla propria indole generosa ed espansiva.
“È stato un caso. Passavo di lì...”
“Non esiste il caso” ti interrompe “niente succede per caso. Io credo che ci sia sempre una ragione a tutto, anche se non siamo sempre in grado di capire.”
È un saluto che ti lascia lì esitante, senza parole.
Il campo da gioco si è ormai spopolato e sembra che tutti abbiano fretta di tornare a casa o di andarsene chissà dove. Non hai amici a Dublino. Non te ne sei mai reso conto così lucidamente come ora. Conosci tanta gente, tutti i giorni ti capita di salutare qualcuno per strada, ma non c’è nessuno che tu possa svegliare nel cuore della notte per una confidenza bruciante. Perché non hai trattenuto ancora un istante la dottoressa portoghese? Com’è che non ti è venuto in mente di invitarla a cena una delle prossime sere e presentarle Deirdre e le bambine? Avresti fatto certamente la felicità di Chloe e Julia, sempre così golose di novità. E avresti potuto introdurre un diverso argomento di conversazione con Deirdre.


All’altezza dello stadio senti l’ansia pulsare forte contro il tuo cuore. Cerchi di mantenere una velocità regolare, combattuto fra il desiderio di fiondarti in casa al sicuro e il terrore di essere investito da una solitudine agghiacciante una volta richiusa la porta. Varchi la soglia dell’appartamento e nessun mostro ti assale. Gli oggetti sono tutti fermi al loro posto. La tua vita senza le bambine è un’assurdità insopportabile, realizzi abbandonandoti affranto contro la porta.
Passa un bel po’ di tempo prima che tu ti decida a dare l’allarme. Un certo numero di ore in cui non ti riesce di fare assolutamente nulla a parte startene lì seduto ad accogliere le ombre una ad una. Intanto gli altri appartamenti si illuminano, qualcuno nel cortile scarica sacchetti della spesa, spesse tende a fiori vengono tirate a difesa di chissà quale intimità domestica. Sbrigati a prendere in mano il telefono: non è certo standotene lì immobile a fissare il vuoto che spegnerai questo attacco d’ansia.
“Dove sei Steve?” è la domanda che arriva subito dopo un istante di esitazione, e la voce ha il consueto tono rassicurante, caldo e senza incertezze di chi è abituato a scavalcare le apparenze.
“Sono a casa, dove vuoi che sia…”
“Vieni qui, tesoro. Sono sicura che qui con noi starai subito meglio. Le bambine stanno dormendo.”
È questa voce per niente irlandese che da anni ti tiene ancorato alla realtà. Un suono sommesso dal timbro velato che ha il potere di dissolvere magicamente le tue angosce. Hai seguito questa voce fatata come un cagnolino cieco senza padrone e ti sei ritrovato in un paese straniero, in una città nuova, e ancora implori lo sguardo scintillante di Deirdre e la sua energica pazienza per essere rivitalizzato. Non sei mai guarito, Steve. Nonostante tutti i tuoi sforzi, non sei ancora un uomo libero.

(da "L'inutile guida" ed. Progetto Cultura, 2009 - terza puntata)

Nessun commento: