Avevo sperato assurdamente che almeno un bar sarebbe rimasto in vita. L’aeroporto si è ridotto ad una specie di deserto freddo e asettico, popolato da pochi spettri affranti. Brancoliamo qui dentro da più di dodici ore: ormai è chiaro che non partiremo neanche stanotte. È con un certo sollievo, lo ammetto, che vedo Gordon avanzare dal fondo del corridoio verso di me.
“Partiamo domani mattina alle 6.35” annuncia con evidente soddisfazione, prima di spiegarmi che la compagnia aerea ci offre una notte in un hotel della città. Faccio un rapido calcolo.
“Gordon, ti rendi conto che ore sono?”
Gordon respira profondamente e, sforzandosi di essere gentile, chiede: “Qual è il problema, Steve?”
“Partiamo domani mattina alle 6.35” annuncia con evidente soddisfazione, prima di spiegarmi che la compagnia aerea ci offre una notte in un hotel della città. Faccio un rapido calcolo.
“Gordon, ti rendi conto che ore sono?”
Gordon respira profondamente e, sforzandosi di essere gentile, chiede: “Qual è il problema, Steve?”
“Il problema è che tu non dovresti nemmeno farmi una proposta del genere. Non saremo in quel fottutissimo hotel prima delle 2 e alle 5 dovremo essere pronti a saltare sull’autobus come soldatini. Non posso nemmeno cambiarmi questi vestiti puzzolenti perché quei bastardi si sono ingoiati il nostro bagaglio...”
Gordon mi interrompe categorico e si prende il gusto di scandirmi in faccia: “Steve-fai-quel-cazzo-che-ti-pare.” Poi estrae una nuova carta di imbarco e me la lancia addosso ordinando: “Alle 5.45 dove c’è scritto lì. Ti auguro buon riposo.”
Gordon mi interrompe categorico e si prende il gusto di scandirmi in faccia: “Steve-fai-quel-cazzo-che-ti-pare.” Poi estrae una nuova carta di imbarco e me la lancia addosso ordinando: “Alle 5.45 dove c’è scritto lì. Ti auguro buon riposo.”
Ricomincio a vagare come un recluso su e giù per scale, corridoi e sale d’attesa. Esco a respirare la notte ma l’aria ha un odore pessimo di desolazione e il pensiero ossessivo di Corinne mi attanaglia di nuovo. La sua lettera d’addio resta un aperto atto d’accusa nei miei confronti: come Orfeo tu non hai avuto la forza di salvarmi, dice. Credeva nel potere della mia arte e io l’ho delusa, la mia arte non le è servita. A chi può servire la mia arte? Non è ridicolo e assurdo tutto questo? Non so fare altro che quello che faccio e quello che faccio è assolutamente inutile, se non dannoso.
È una sorpresa distinguere Alex seduto per terra laggiù in fondo, la fronte contro la vetrata, le braccia strette attorno alle ginocchia.
Sembra un bambino che spia dalla finestra il ritorno di qualcuno che gli tenga compagnia. Mi avvicino sentendomi invadere da una inspiegabile promessa di conforto e calore e, quando lo raggiungo, provo lo stravagante impulso di mettergli le mani sulle spalle. Ma conosco l’imprevedibile suscettibilità di Alex e mi trattengo.
“Hai visto Gordon?” gli chiedo.
Lui solleva la testa verso di me con una smorfia di rassegnazione che dice tutto. Restiamo per qualche minuto in silenzio ad osservare l’immobilità nera di là dall’immensa vetrata, poi decidiamo di riprendere insieme il vagabondaggio notturno.
Ormai abbiamo imparato a memoria l’aeroporto intero, abbiamo esaminato ogni singola merce esposta al buio dietro le grate dei negozi chiusi e sappiamo quali sono le toilettes da evitare. Alla fine, distrutti, ci sediamo a terra, le spalle contro la vetrina della libreria. I nostri anfibi si toccano, credo che abbiamo l’aria di due disperati in fuga.
“A cosa stai pensando?” chiedo a un tratto per inerzia.
Alex sogghigna e volta la faccia verso il bar deserto.
“Se è una cosa divertente voglio saperla” insisto io, accontentandomi di qualsiasi briciola di conversazione.
“No, divertente non direi” e il sorriso si spegne e lo sguardo resta fisso ai tavolini scheletrici del bar.
“Vorrei soltanto che si facesse giorno” proseguo io, scavalcando impietosamente la malinconia di Alex, con l’unico desiderio di trovarmi sulla pista di decollo in un deserto di erba bruciata.
Mi chiedo quanto a lungo riuscirò a sopportare il silenzio irreale di questa enorme cella frigorifera.
“Fa un freddo insopportabile” dice finalmente lui, come risvegliandosi, e sollevandosi un poco. Mi guarda. Poi appoggia la testa sulla mia spalla e si fa praticamente abbracciare. Il mio è un gesto semplice, perfettamente naturale, ed è il sintomo di una complicità esclusiva, rifletto con orgoglio.
Restiamo così a lungo, in silenzio, io che gli strofino lentamente un braccio, come per dargli calore, e lui che con un dito percorre il mio ginocchio, quasi per indovinarne i minimi dettagli attraverso i jeans. Mi sento lusingato da questa richiesta di aiuto da parte di Alex. Ancora una volta sono l’unico testimone di un suo cedimento e ne sono fiero.
Provo una sensazione bizzarra e vivissima: mi sento come se stessi percorrendo nella realtà una strada conosciuta precedentemente solo in sogno.
“Ti ricordi il provino?” domanda Alex rianimandosi all’improvviso. È stato un anno fa, più o meno, e ricordo tutto perfettamente.
“Tu credi alle coincidenze?” continua lui, ancora concentrato sul mio ginocchio sinistro.
Ho visto spesso Alex ubriaco. Ai tempi della sua relazione con la tipa dell’agenzia immobiliare aveva preso l’abitudine di nascondersi in certi locali assurdi a stordirsi di erba e vino e toccava sempre a me e Corinne andare a stanarlo. Ho visto Alex vomitare fino a sfinirsi e poi rientrare nel bar e ricominciare a bere, l’ho visto difendere contro ogni logica la propria solitudine. Sono così abituato alla sua resistenza orgogliosa che mi riesce difficile credere a questo smarrimento, a questa voce insolita e spezzata che mi chiede ancora, con insistenza infantile, se credo alle coincidenze.
“Non lo so, non ci ho mai pensato…”
La mia risposta sembra deluderlo moltissimo. Si stacca da me e si abbraccia le ginocchia contro il petto. Devo averlo ferito terribilmente.
“Io invece ci sto pensando da parecchio” riprende con la voce guastata dall’amarezza, con l’aria di uno che vuole comunque arrivare in fondo. “Il modo in cui ci siamo conosciuti, il fatto che fossimo tutti e due a Seattle, in quel preciso momento quando a te è successo quel casino col tuo chitarrista e quando io sono rimasto improvvisamente senza lavoro… e di come io ho saputo per caso che stavi cercando un chitarrista… sì, lo so, dal tuo punto di vista tu potresti dire che tutto avviene per caso e che se non avessi trovato me avresti di sicuro trovato qualcun altro e dal tuo punto di vista io potrei essere solo il tipo che ti ha rubato la ragazza e l’ha fatta scappare, insomma, dal tuo punto di vista…”
“Che cazzo stai dicendo?” lo interrompo bruscamente, irritato da quella sua rozza intrusione nel mio punto di vista.
Lui distende le gambe e si concentra sulle stringhe degli anfibi per trovare il coraggio di proseguire. “Voglio dire… Quando sono arrivato lì e ho parlato con te e poi abbiamo iniziato a provare, la sola cosa a cui pensavo era voglio avere questo lavoro, lo volevo con tutte le mie forze, e ho sentito chiaramente che la mia vita sarebbe stata inutile se non avessi potuto suonare con te… Nel momento in cui mi hai chiesto quale canzone dei Velvet Underground avrei scelto per una cover, non ho nemmeno dovuto rifletterci.”
Tutti i chitarristi che avevamo esaminato in precedenza erano caduti dalle nuvole a quella domanda e nessuno mi aveva fornito la risposta che desideravo, a differenza di Alex che invece sembrava avermi letto nel pensiero.
“Per qualche strana ragione avevo passato la notte ad ascoltare il disco della banana” continua intanto Alex. “All Tomorrow Parties è in assoluto il pezzo che preferisco, ho sempre avuto in mente di spalmarla di chitarre distorte, il suono più acido che si sia mai sentito, e tu hai detto finalmente! e allora ho capito che se non avessi potuto lavorare con te niente avrebbe avuto più senso nella mia vita.”
Non conosco un chitarrista più geniale di Alex. Con nessuno ho mai avuto un’intesa più immediata.
”Dici davvero?” Si volta di scatto a scrutarmi, gli occhi appuntiti dall’ansia.
“Non capisco dove vuoi arrivare, Alex.”
“La verità, vedi” prosegue lui torcendosi nervosamente una mano e abbandonando i miei occhi “la verità è che quando suoniamo assieme, io provo una sensazione stranissima… Non mi è mai capitato niente di simile. È qualcosa di cui non potrei più fare a meno…”
La mia mano si deposita sulla sua spalla. Ciò che vorrei trasmettergli è gratitudine, fondamentalmente.
“…è come se ci fosse qualcosa che ci unisce nel profondo, come se ci fossimo conosciuti in una vita precedente” sta confessando ancora lui, lo sguardo teso altrove. “È un’intesa così assoluta, così segreta, è esattamente come se stessimo facendo l’amore”.
Vedo una porzione di nubi nere scivolare lentamente nel mio cielo liberando uno spiraglio di azzurro, di aria nuova, di speranza.
Quello che provo non ha niente a che vedere con la felicità, suppongo, ma è qualcosa che non vorrei mai smettere di provare: è una specie di dolcissimo dolore, una sorta di languore eccitante che parte dallo stomaco e mi scalda le vene e comincia subito a consumarmi come una fiamma.
“Ci sono momenti” prosegue lui con la voce spezzata dentro il mio abbraccio “ci sono momenti quando sento questa specie di corrente fra me e te, e la sento così forte, ed è quasi una sensazione fisica e mi sembra che potrei ammazzare chiunque si permettesse di mettersi di mezzo…”
Le sue mani, bianche e scarne, stanno tremando in modo evidente. Gliele stringo istintivamente fra le mie e la sua chioma disordinata si rovescia su quell’intreccio in una supplica di perdono, perdono, perdono… Affondo le dita in quei morbidi serpenti semiossigenati, e mi sorprendo di come le mie mani giochino con assoluta naturalezza, totalmente disinibite, quasi non aspettassero altro.
Infine lui scoperchia uno sguardo desolato: “Ho rovinato tutto, vero?”
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