Quando Didi lascia la stanza, tutta l’angoscia di una domenica in famiglia ti si conficca nello stomaco tagliandolo in due con lenta perfidia. Sia benedetto il letto accogliente in cui ti stanno costringendo le vertigini. Poi allunghi la mano sotto le lenzuola per cercare la copia del diario di Lynn su cui hai chiuso gli occhi ieri sera, ignaro del risveglio disgustoso che ti aspettava.
“All’epoca la mia vita dipendeva dai giornali musicali britannici. Li comperavo tutti, scorrevo scrupolosamente ogni più piccolo trafiletto in cerca del tuo nome. Mi nutrivo di qualsiasi dettaglio su di te. Detestavo quei giornali, il tono arrogante delle recensioni, la presunzione e una certa aggressività da parte di chi ci scriveva. Li odiavo, ma erano l’unica fonte di notizie sul tuo conto e perciò non potevo farne a meno.
Io, io che cucivo insieme ogni più piccolo frammento della tua vita e della tua arte per arricchire il meraviglioso progetto del mio amore per te, io avrei potuto continuare a ignorare beatamente la tua relazione con Alexis Ducrey se un giorno non mi fossi imbattuta in quella famosa intervista sul New Musical Express dove si dava tutto per scontato. Rilessi l’articolo così tante volte che lo imparai a memoria, parola per parola e, ripensandoci ora, posso ancora rivivere lo choc, il dubbio, il tormento che provai allora.
Si comporta così anche a casa?, ti chiedeva quello stronzo sfacciato di giornalista riferendosi ad Alex al quale, all’inizio dell’articolo, aveva dato dell’autistico per essersi isolato in un angolo ad ascoltarsi musica in cuffia.
È tutto a posto, tutto normale, era stata la tua risposta, Alex è ancor meno interessato alla realtà di quanto lo sia io, sì, lui ha questa tendenza ad isolarsi in un mondo tutto suo ma è il suo solo difetto, non mi riesce di trovargliene altri, così mi è piuttosto facile perdonarlo…
A CASA. Così c’era scritto: A CASA. E la tua risposta suggeriva un’intimità che era difficile attribuire ad una semplice amicizia. Adoro andare in tour, dicevi poi in un altro punto dell’intervista, è un buon pretesto per stare con Alex 24 ore su 24.
All’inizio aveva prevalso la sorpresa, poi era subentrata la delusione: da quanto tempo durava? Da quanto tempo io vivevo all’oscuro di tutto? Io, proprio io che vivevo unicamente per te, sicura di averti compreso meglio di chiunque altro al mondo, io non ero nemmeno stata sfiorata dal sospetto di ciò che era accaduto dentro il tuo cuore. Era una sconfitta inaccettabile.
Dovevo capire. Entrare nella logica che sosteneva la vostra relazione. Concentrai le mie attenzioni su Alex. Volevo arrivare a vederlo coi tuoi occhi.
Purtroppo il materiale a mia disposizione era veramente scarso - a quel tempo Internet era ancora fantascienza - ma avevo delle videocassette pirata di alcuni vostri vecchi concerti e le riesaminai attentamente. La mia analisi non produsse grandi risultati. L’unico particolare che a quel punto potevo interpretare sotto una nuova luce era l’atteggiamento di Alex sul palco: quando non si isolava fra i suoi amplificatori o a cercarsi i suoni dentro la testa, non aveva occhi che per te.
Solo il tempo mi ha dato il distacco e la serenità necessari a capire.
Ora io credo sia stata una bizzarra sintesi di opposti a rapire il tuo cuore. C’era una specie di aggressività inesplosa nell’atteggiamento di Alex, il medesimo impulso che lo spingeva a corrodere i suoni, a storpiarli, a disilludere costantemente l’ascoltatore. Alex ispirava un senso di perfetta autosufficienza. Credo che l’ultima cosa che gli importasse fosse comunicare con l’ascoltatore. Non cercava il dialogo: il suo discorso era a senso unico e il senso era aggredire. Per difendersi, probabilmente. Perché tutta quella perfetta sicurezza poteva crollare come un castello di sabbia. Ora sono convinta che, nonostante le apparenze, Alex fosse molto più fragile e inquieto di te.
Non fu facile per me ammettere la sconfitta. Per convincere il mio cuore lo costrinsi a sanguinare in diretta.
Il giorno del concerto alle due del pomeriggio ero già dalle parti del Point Depot a spiare il vostro arrivo. Tra raffiche di vento e violenti scrosci d’acqua, insieme a pochi altri irriducibili, attesi fedelmente, disperata e felice al tempo stesso: guardavo i roadies scaricare e trasportare all’interno quei misteriosi bauli destinati a trasformarsi, a sprigionare ciò che mi avrebbe ridato la vita. Quando fummo confinati dietro le transenne capii che il momento era vicino.
Dalla prima auto nera scesero Alex, Brian e un tipo mai visto. Alex era pallido e magro come uno spettro - il look devastato di sempre - e fumava e discuteva nervosamente in francese con lo sconosciuto. Quasi mi sfiorarono passandomi davanti: parlavano di dettagli tecnici legati all’amplificazione e alla qualità del suono. Brian fu il solo a degnarci di qualche rapida stretta di mano. Alex non ci aveva nemmeno visti. Che da ore fossimo lì al freddo era un problema che non lo riguardava. Quando arrivasti tu insieme ad Eric e a Gordon Morris, sembrò che il cielo si spaccasse per lasciar cadere quanta più acqua possibile. L’autista ingranò la retro e vi condusse all’ingresso principale per depositarvi comodamente al riparo sotto la pensilina. Ci fu solo il tempo di capire, non certo di raggiungervi. Una frazione di secondo e il mio progetto di rivederti ancora da vicino e parlarti e toccarti un’altra volta era già svanito. Mesi di attesa spazzati via da un breve scroscio d’acqua gelata. E quel pomeriggio al freddo fra ansia e speranza: un sacrificio inutile che tu non avresti saputo mai.
Ma ancora non volevo cedere alla rassegnazione, così al termine del concerto provai ad appostarmi di nuovo sul retro del teatro: spiavo i roadies che impacchettavano e caricavano strumenti, cavi e amplificatori e non mi accorsi subito che, seduto in un angolo, con addosso un paio di jeans e una T-shirt nera, una lattina di Guinness in mano, c’era Alex. Aveva un’aria infelice, sembrava un bambino sofferente, impaziente. Sorseggiava la sua birra a intervalli regolari, con un gesto quasi automatico, e teneva sotto controllo i roadies come se stessero stivando un tesoro prezioso. A lavoro ultimato qualcuno fece calare la serranda e Alex scomparve. Tutti scomparvero. Sarebbe stato logico rassegnarsi e tornare a casa, era chiaro che dovevate essere scappati via da una qualche uscita di servizio. Eppure qualche ora dopo la fine del concerto io ero il solo fantasma ancora in circolazione dalle parti del Point Depot. Non riuscivo ad abbandonare quel santuario dove, nonostante tutto, ancora una volta ti avevo adorato in tutto il tuo splendore, in tutto il tuo irraggiungibile genio.
C’era un meraviglioso cielo stellato sopra di me mentre percorrevo senza ragione i vecchi binari della ferrovia incastrati nell’asfalto. All’improvviso mi trovai alle spalle un’auto che lampeggiava minacciosa: mi scostai per lasciarla passare e quando la vidi svoltare verso l’ingresso principale una voce segreta, irresistibile, mi spinse a seguirla. Non avevo niente da perdere, valeva la pena tentare. L’auto era lì buia e immobile, al volante un tizio insignificante che mi vide ma continuò a giocherellare con la radio lasciandomi procedere indisturbata verso la grande vetrata dell’arcata centrale. Chissà se Alex si accorse di me. Al di là della porta a vetri, nel deserto malinconico di una luce fioca, lui se ne stava lì da solo, seduto sulle scale, infagottato come un mendicante, una sacca di foggia militare ai piedi, la testa abbandonata contro il corrimano. Aveva la medesima espressione affranta di qualche ora prima. Quando vidi la tua lunga ombra nera avanzare, il mio cuore stava già battendo all’impazzata, come per un presentimento.
Io non troverò mai le parole per dire la grazia, la tenerezza, la delicatezza con cui la tua mano scese a posarsi sulla sua fronte, una carezza salda e dolcissima, un lungo silenzio immobile, la testa di Alex abbandonata dentro il tuo abbraccio. Non accadde altro, ma non avevo bisogno di vedere di più. Ti avevo perso completamente. Non c’era più un solo minuscolo spazio libero nel tuo cuore. Avrei tanto voluto scappare via, volatilizzarmi, diventare trasparente. Ma non potevo sottrarmi a quel dolore, a quella bellezza. Ero come ipnotizzata. Vi guardai calpestare la mia ombra mentre vi muovevate verso la macchina, Alex avvinghiato a te come all’unico sostegno della sua vita. Per te io non esistevo, non sarei mai esistita, non ero esistita mai.
Ero ancora lì impietrita a guardarvi raggiungere la macchina quando la porta si spalancò all’improvviso e Gordon Morris si rialzò il bavero della giacca fiutando il cielo con aria soddisfatta. Si accorse di me, mi salutò augurandomi la buonanotte. Era tutto finito.”
Non è stato un pomeriggio facile. Però ti accorgi con sollievo che il risveglio ti sta regalando la possibilità di tenere la testa rivolta verso la finestra. Vedi, il mondo continua là fuori, ogni cosa ha seguitato a procedere con regolarità. Persino la pioggia ha scelto di rimettersi all’opera, lenta e fedele attraverso le luci della sera. Non potresti desiderare suono più consolante di questo umido tramestio attorno al tuo davanzale.
A volte la notte sa rendere tutto così dolce, così accettabile.
“Ho portato qui le bambine” sussurra Deirdre al buio, entrando in punta di piedi. “Ho detto loro che hai la febbre e stai dormendo.”
Tesoro mio qualche volta sai fare la cosa giusta, pensi stringendola a te, inspirando l’umidità della sera dai suoi capelli.
“Resti a dormire qui?” chiedi quasi non osando sperare tanto.
Affondato nell’oscurità contempli il suo profilo luminoso mentre si sfila il cappotto con la grazia di un’indossatrice.
“Vieni che ti aiuto ad andare in bagno” sorride, e le sue esili braccia tenaci protese verso di te risplendono nella notte.
Ma ancora non volevo cedere alla rassegnazione, così al termine del concerto provai ad appostarmi di nuovo sul retro del teatro: spiavo i roadies che impacchettavano e caricavano strumenti, cavi e amplificatori e non mi accorsi subito che, seduto in un angolo, con addosso un paio di jeans e una T-shirt nera, una lattina di Guinness in mano, c’era Alex. Aveva un’aria infelice, sembrava un bambino sofferente, impaziente. Sorseggiava la sua birra a intervalli regolari, con un gesto quasi automatico, e teneva sotto controllo i roadies come se stessero stivando un tesoro prezioso. A lavoro ultimato qualcuno fece calare la serranda e Alex scomparve. Tutti scomparvero. Sarebbe stato logico rassegnarsi e tornare a casa, era chiaro che dovevate essere scappati via da una qualche uscita di servizio. Eppure qualche ora dopo la fine del concerto io ero il solo fantasma ancora in circolazione dalle parti del Point Depot. Non riuscivo ad abbandonare quel santuario dove, nonostante tutto, ancora una volta ti avevo adorato in tutto il tuo splendore, in tutto il tuo irraggiungibile genio.
C’era un meraviglioso cielo stellato sopra di me mentre percorrevo senza ragione i vecchi binari della ferrovia incastrati nell’asfalto. All’improvviso mi trovai alle spalle un’auto che lampeggiava minacciosa: mi scostai per lasciarla passare e quando la vidi svoltare verso l’ingresso principale una voce segreta, irresistibile, mi spinse a seguirla. Non avevo niente da perdere, valeva la pena tentare. L’auto era lì buia e immobile, al volante un tizio insignificante che mi vide ma continuò a giocherellare con la radio lasciandomi procedere indisturbata verso la grande vetrata dell’arcata centrale. Chissà se Alex si accorse di me. Al di là della porta a vetri, nel deserto malinconico di una luce fioca, lui se ne stava lì da solo, seduto sulle scale, infagottato come un mendicante, una sacca di foggia militare ai piedi, la testa abbandonata contro il corrimano. Aveva la medesima espressione affranta di qualche ora prima. Quando vidi la tua lunga ombra nera avanzare, il mio cuore stava già battendo all’impazzata, come per un presentimento.
Io non troverò mai le parole per dire la grazia, la tenerezza, la delicatezza con cui la tua mano scese a posarsi sulla sua fronte, una carezza salda e dolcissima, un lungo silenzio immobile, la testa di Alex abbandonata dentro il tuo abbraccio. Non accadde altro, ma non avevo bisogno di vedere di più. Ti avevo perso completamente. Non c’era più un solo minuscolo spazio libero nel tuo cuore. Avrei tanto voluto scappare via, volatilizzarmi, diventare trasparente. Ma non potevo sottrarmi a quel dolore, a quella bellezza. Ero come ipnotizzata. Vi guardai calpestare la mia ombra mentre vi muovevate verso la macchina, Alex avvinghiato a te come all’unico sostegno della sua vita. Per te io non esistevo, non sarei mai esistita, non ero esistita mai.
Ero ancora lì impietrita a guardarvi raggiungere la macchina quando la porta si spalancò all’improvviso e Gordon Morris si rialzò il bavero della giacca fiutando il cielo con aria soddisfatta. Si accorse di me, mi salutò augurandomi la buonanotte. Era tutto finito.”
Non è stato un pomeriggio facile. Però ti accorgi con sollievo che il risveglio ti sta regalando la possibilità di tenere la testa rivolta verso la finestra. Vedi, il mondo continua là fuori, ogni cosa ha seguitato a procedere con regolarità. Persino la pioggia ha scelto di rimettersi all’opera, lenta e fedele attraverso le luci della sera. Non potresti desiderare suono più consolante di questo umido tramestio attorno al tuo davanzale.
A volte la notte sa rendere tutto così dolce, così accettabile.
“Ho portato qui le bambine” sussurra Deirdre al buio, entrando in punta di piedi. “Ho detto loro che hai la febbre e stai dormendo.”
Tesoro mio qualche volta sai fare la cosa giusta, pensi stringendola a te, inspirando l’umidità della sera dai suoi capelli.
“Resti a dormire qui?” chiedi quasi non osando sperare tanto.
Affondato nell’oscurità contempli il suo profilo luminoso mentre si sfila il cappotto con la grazia di un’indossatrice.
“Vieni che ti aiuto ad andare in bagno” sorride, e le sue esili braccia tenaci protese verso di te risplendono nella notte.
(da "L'inutile guida" ed. Progetto Cultura, 2009 - dodicesima puntata)
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