“…Io non troverò mai le parole per dire la grazia, la tenerezza, la delicatezza con cui la tua mano scese a posarsi sulla sua fronte, una carezza salda e dolcissima…”
Che cosa ho fatto di male, pensi aggrappandoti disperatamente alle lenzuola, provando a farti forza con un gomito, che cosa ho fatto di male, mio Dio, per meritare un castigo così terribile, una punizione che non augureresti nemmeno al tuo peggior nemico… Controllare l’ansia è il problema numero uno; come se la nausea fosse roba da niente. Tenere fisso lo sguardo davanti a sé, è questa la cosa da fare, sguardo fisso e respiri lunghi e controllati, è su questo che ti concentri mentre sei già in un bagno di sudore e la tua mano destra vaga ciecamente, alla disperata ricerca del telefono. Non c’è niente che tu possa fare senza aiuto, ora, niente che tu possa tentare prima che Deirdre ti abbia messo in bocca un paio di compresse. Inutile cercare di alzarsi: sai già che nel giro di pochi secondi ti ritroveresti a terra, trascinato nel gorgo del pavimento in un lago di vomito.
Inspiegabilmente, i passi di Deirdre sulle scale, invece di allentare l’ansia sembrano farla aumentare. Ecco tua moglie che si siede cauta sul letto e ti carezza delicatamente la fronte e la guancia sorridendo. Da qualche parte dentro di te, sai già che questo è il massimo della tenerezza che ti viene messo a disposizione e te lo stai bruciando nel giro di pochi secondi. Deirdre indossa il cappottino di lana verde melange che le hai regalato, un modello anni ’60 a vita alta con vistosi bottoni in legno, assolutamente ideale per il suo corpo da ragazzina. La punta di colore è perfetta per i suoi occhi, pensi con una sorta di sollievo, trovando conforto in quell’armonia di forme e colori.
Fuori è una domenica tetra e immobile: l’avevi intuito da quell’unico sguardo veloce alla finestra, non appena aperti gli occhi, subito prima che i quattro angoli del soffitto cominciassero a roteare lentamente attorno a te. Non sembra un attacco dei peggiori, niente di comparabile alla prima volta quando era come avere un’elica al posto della testa; certo le vertigini sono una minaccia odiosa con la quale non ti rassegni a convivere.
A un tratto il panico ti assale insieme ad una ondata violenta di nausea e sudore: e se queste fossero le avvisaglie di un attacco identico a quello che ha azzerato in una frazione di secondo qualsiasi capacità uditiva nel tuo orecchio sinistro? Se si trattasse della manifestazione superficiale di un problema sotterraneo che sta lavorando ai danni del tuo orecchio sano?
“Steve, se è questo il tuo modo di reagire…” Deirdre lascia deliberatamente la frase in sospeso per rimarcare la sua delusione nei tuoi confronti. Poi la senti togliersi il cappotto con un sospiro. È il suo modo di aiutarti, ormai hai imparato che non può fare più di questo. Non è mancanza d’amore o superficialità, è una sorta di analfabetismo della tenerezza, un linguaggio che conosce a malapena, che hai disperatamente tentato di insegnarle ma che non ha mai fatto suo. Ti sei abituato a far tesoro di ogni minima manifestazione d’affetto da parte di tua moglie perché sai che il poco che ti concede è tutto quello che ti può dare.
Il cuore ti si allaga di solidarietà per la figura ossuta e testarda che ti siede accanto; la vedi rimpicciolirsi e piegarsi contro lo sfondo di una storia familiare costruita sulle asprezze di una povertà rassegnata, quasi compiaciuta. Deirdre è seduta sul bordo del letto, la schiena curva e pensosa fasciata da una calda maglia color avorio. Allunghi una mano sulla sua spalla e gliela accarezzi con un massaggio lento, privo di forza; cerchi la sua comprensione, la sua complicità, mentre, una volta di più, rileggi la sua storia alla luce di quel sentimento ruvido e sbrigativo che deve aver forgiato la sua infanzia. Ammiri la sua determinazione ad affermare se stessa, le invidi la forza, la fiducia nelle proprie possibilità; sei addirittura orgoglioso delle sue conquiste. Ma la devozione che Deirdre continua a nutrire per chi l’ha cresciuta con sentimenti più vicini all’odio che all’amore sembra il frutto di una sottomissione perversa, inquietante, insospettabile nella donna energica e positiva che ama ridurre i problemi ai minimi termini.
È in momenti come questo che senti avvampare di nuovo la ribellione più vigorosa contro l’istituzione della famiglia che inocula condizionamenti incancellabili nel sangue di creature indifese. Ma forse è solo la tua anima malfatta a farti rifiutare la sacralità dei legami di sangue. È la tua anima riottosa ad evocare su di te la giusta punizione, a spingerti nel cono d’ombra della maledizione, dove non è più possibile riparare ai propri errori.
“Non dovresti startene qui da solo, Steve”
“In queste condizioni non posso muovermi, lo sai.”
“Ma non ti fa bene stare qui da solo, non fai che lavorare di fantasia, e pensi sempre al peggio”
“Non voglio che le bambine mi vedano così, sai bene che si spaventano.”
Con un braccio ti copri gli occhi e con l’altro attiri a te il corpo flessuoso di Deirdre. Cingere quella vita sottile contro di te ha un effetto benefico, anche se temi che lei stia già fremendo per alzarsi.
“Sai qual è il tuo problema, Steve?”
“Tu vedi un solo problema?”
“Il tuo problema” prosegue Deirdre, ignorando la tua provocazione “è che hai smesso di frequentare il carcere. Ho sempre saputo che era importante per te, ma ora capisco quanto. A volte ho la sensazione che fosse l’unico posto dove ti sentivi a tuo agio” conclude con una punta di tristezza. Senti finalmente la sua mano sulla tua.
“Io sto bene con te e le bambine” la stringi ancora più a te, desiderando averla sotto le lenzuola.
È a questo punto che lei si alza. C’era da aspettarselo. “Di solito quanto ci mettono quelle compresse a fare effetto?” domanda distrattamente guardando dalla finestra.
È il suo modo di amarti. Non ti prenderà mai sul serio, mai per un tempo più lungo di qualche minuto.
“Non so, credo che non servano a niente, in realtà…”
“Ma perché le prendi allora?”
È più facile crollare nel buio della propria solitudine, lasciarsi andare alla paura di sempre, acquattarsi e aspettare. Non serve rispondere. Tornerai a Didi quando avrai qualcosa da prendere e lei qualcosa da dare.
“Bacia le bambine per me e di’ loro che mi mancano” dici all’improvviso tirandoti il lenzuolo sugli occhi.
“Steve, non stai mica morendo!” esplode Didi nervosa. Senti quanto sia infastidita dal tuo malessere, no, non dalle vertigini, ma da quel tuo malessere profondo che non riesce o non vuole raggiungere; percepisci chiaramente quanto vorrebbe essere lontana da quella stanza e come invece si sforzi di trattenersi, sedendo ora all’altro angolo del letto. Facciamo tutti così quando siamo davanti ad un dolore che non possiamo affrontare, rifletti giustificandola. Ma c’è un’ondata di lacrime che preme, intanto, preme sul tuo cuore lottando contro l’avanzata insistente della nausea. Lasciami solo, Didi, lasciami solo, per l’amor di Dio.
“Steve, tu stai esagerando come sempre” conclude lei dopo un attimo di silenzio, rispondendo alla sua ineccepibile logica della linea retta, la logica della via più semplice.
“Io voglio continuare ad amare Julia e Chloe come le amo ora” dichiari improvvisamente al soffitto. “Non mi importa se un giorno mi odieranno: è un loro diritto odiarmi. Quello che conta è che il mio amore per loro non cambi mai.”
Didi si alza e si infila il cappotto.
“Steve, non so come tu possa sperare di sentirti meglio se te ne stai qui a fantasticare di cose assurde” sentenzia, approfittando della tua dichiarazione per sentirsi giustificata ad andarsene. Aggiunge seccamente che nel pomeriggio porterà le bambine da sua madre; se non pioverà usciranno per una passeggiata in St. Stephen’s Green.
(da "L'inutile guida" ed. Progetto Cultura, 2009 - undicesima puntata)
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