domenica 1 novembre 2009

Lignes de fuite - 2 (Losanna)



Losanna – dove ero passata rapidamente nel ’92 in occasione di un concerto dei Cure – me la ricordavo proprio così: distinta e brumosa, il selciato umido di nebbia, le stradine acciottolate in salita, i meravigliosi palazzi d’inizio novecento, le lunghe finestre affondate nei tetti in ardesia che fanno tanto Parigi.
Non ricordavo, invece, o non avevo avuto modo di notare gli aspetti meno simpaticamente francesi della città: non c’è dubbio che gli Svizzeri di lingua tedesca superino ampiamente i compatrioti francofoni quanto ad affabilità e semplicità. Ed anche gli standard di igiene e pulizia sono molto più vicini a quelli francesi che a quelli svizzeri.
L’impressione generale – se può valere un’impressione ricavata da una permanenza di una giornata scarsa – è che gli abitanti di Losanna se la tirino un po’. In ogni caso la città è bellissima e il centro storico incantevole.



Il primo losannese che riusciamo ad avvicinare per un’informazione parla un italiano dal fortissimo accento sardo con cadenza francese.
Ha appena parcheggiato accanto a noi compiendo una manovra poco ortodossa e, nell’indicarci la direzione, ci suggerisce una manovra altrettanto scorretta “Tanto siete italiani, no?” dando per scontato che la violazione delle regole, comprese quelle di un paese straniero, sia un’attiudine naturale per un italiano, una caratteristica inscritta nel patrimonio genetico nazionale.

Più tardi, dopo aver inutilmente cercato a lungo un qualche locale senza pretese che soddisfacesse la nostra voglia di raclette e fondue finiamo nostro malgrado in uno sciccosissimo ristorante italiano dove siamo accolti con iniziale freddezza per via delle nostre scarpe da trekking e dove mi guadagno tutto il disprezzo del maître quando chiedo che i ravioli di zucca mi siano serviti senza olio al tartufo.

Dopo cena ci ritroviamo a vagabondare tra le strade deserte e, curiosando attraverso le vetrine ancora illuminate dei numerosi negozi d'antiquariato,




incappiamo in un locale che ci fa piombare in un clima vieille France e lì, finalmente, ci sentiamo subito a nostro agio.



Mentre il bluesman può finalmente dar sfogo alla sua turpe voglia di birra, io mi faccio due espressi e un tè, osservando gli avventori che paiono tutti usciti da una ballata di Brassens (noi compresi).



Peccato non essere riuscita a fotografare le composizioni di fiori finti inizio anni '70 che ornavano le nicchie tra una volta e l'altra. E, soprattutto, ad una settimana di distanza, brucia ancora il rimpianto per non aver approfittato della fondue servita su tovagliette di carta a quadretti bianchi e rossi. À la prochaine fois.

1 commento:

guanabara ha detto...

Credo di capire che la Svizzera conservi un grande amore per il secolo scorso e faccia fatica ad adeguarsi a quello corrente, che probabilmente segnerà la fine di tante, tantissime cose , modi di vita e pensieri. C'est la vie (?) ...